TECNOLOGIA SOLIDALE

Adolescenti e digitale: sicuri che Internet sia il vero male? Parla lo psicoterapeuta Matteo Lancini

“La virtualizzazione delle esperienze è frutto dell’angoscia di noi adulti, che abbiamo sequestrato il corpo dei figli in nome della prevenzione dai pericoli”, dice Matteo Lancini, autore del libro “L’età tradita”. Che aggiunge: il metodo per gestire il rapporto con il digitale è lo stesso da usare ora di fronte alla guerra

Pubblicato il 11 Mar 2022

Photo by Philipp Katzenberger on Unsplash

Siamo tutti preoccupati, viviamo tempi tornati cupi proprio quando pensavamo che il peggio fosse finalmente alle spalle. Tuttavia da un lato la realtà va affrontata per come essa è, dall’altro – come dicono i saggi – le circostanze negative celano nuove opportunità. condivide questa prospettiva, professor Lancini?

“Sì, naturalmente non in una prospettiva da frase dei baci Perugina, ma di una postura adulta nei confronti della realtà.”

Matteo Lancini è psicologo, psicoterapeuta, docente in svariate università milanesi e presidente della Fondazione Minotauro. Ci eravamo dati appuntamento dopo la presentazione del suo ultimo libro “L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti”, organizzata da Pensiero Solido.

La nostra idea era di approfondire i punti salienti del libro riguardo il rapporto tra adolescenti e digitale, a partire dalla frase che Lancini aveva detto durante la presentazione del libro: “Basta prendersela con internet!”.

Però il contesto mutato dalla guerra ci obbliga a partire dal modo in cui i genitori di figli piccoli o adolescenti devono raccontarla ai loro figli, tra immagini televisive e quelle che vengono dai social.

“In queste settimane ho avuto modo di rilasciare diverse interviste sul tema, ma le devo dire che in generale le due questioni si affrontano con lo stesso metodo: un ascolto autentico delle domande, dei desideri e delle paure dei propri figli, una risposta a queste domande coerente con quello che si vive.”

Quindi in pratica mi sta dicendo che guerra e rapporto con il digitale pari sono?
La sua vena ironica mi è nota…tuttavia lei ha ben compreso che è il metodo che è lo stesso e si adatta a entrambe le situazioni. I figli, anzi, ogni figlio è un essere umano e come ogni essere umano è unico e irripetibile. Gli adolescenti non sono una categoria. Di conseguenza i genitori (e gli insegnanti) devono andare incontro, direi abbracciare questa unicità, accoglierla e, dove serve, farsene carico. Vale per aiutarli a capire questa guerra, come nel rapporto con il digitale.

Stabilito questo punto di metodo, torniamo allora alla questione del rapporto tra famiglie, adolescenti e digitale, in tutte le sue declinazioni, dal web ai videogiochi. La tesi del suo libro è che esistono degli stereotipi e dei luoghi comuni sugli adolescenti, stereotipi che vanno sfatati.
Il punto di partenza ha a che fare con delle promesse che facciamo loro durante l’infanzia, promesse che poi, appunto, vengono tradite.

A che cosa si riferisce?
C’è un’emergenza educativa da tanti anni: è il processo di anticipazione, di precocizzazione delle esperienze dell’infanzia. Molto spesso noi cresciamo bambini iper relazionali, che in quinta elementare devono conoscere tanti di quei coetanei quanti ne frequentavo io all’ultimo anno di università. Pensiamo di educare i figli togliendogli molti ostacoli, in una nuova famiglia affettiva, quindi ci aspettiamo che così siano felici e contenti. Invece con l’arrivo dall’adolescenza ci accorgiamo che ovviamente esistono dei compiti evolutivi nuovi. Allora gli diciamo che sono fissati con le relazioni e che questo è tutto sbagliato, perché adesso è arrivato il momento di chiudersi in una stanza, soffrire in silenzio e domani ripetere quello che qualche insegnante vuole sentirsi dire. Loro invece non vedono l’ora di andare avanti con questi modelli relazionali ai quali li abbiamo forgiati. Così non funziona, si crea un corto circuito.

Corto circuito?
Per come la vedo io, ci siamo troppo interessati all’idea di costruire la felicità dei nostri figli eliminando gli ostacoli e fregandocene degli altri, poi ci siamo accorti che avevamo dei ragazzi molto spregiudicati, che vogliono fare quello che vogliono, però anche con una grande fragilità. A questo punto proviamo a riprendere il controllo, ma ormai è tardi. Li abbiamo cresciuti per 13-14 anni in un modo e improvvisamente gli diciamo: “Adesso basta, ti dobbiamo controllare, non stare tanto con gli amici, non essere così espressivo, ti ho cresciuto riprendendoti a partire dalla morfologica e in tutte le recite che hai fatto dall’asilo a oggi, ma adesso il cellulare non lo devi usare.

In buona sostanza, lei dice di non scaricare le nostre carenze di adulti sugli strumenti dell’era digitale, così da scaricarci la coscienza e dormire sonni tranquilli…
Riapriamo i cortili e i giardini, obblighiamo i figli ad andare da soli a scuola. E allora vedrete, vedremo se è internet il vero male. Li abbiamo messi sotto sequestro noi, non il cellulare. Li consegniamo a un asilo nido dai sei mesi e poi mettiamo il loro corpo sotto sequestro. Non sono stati quelli della Silicon Valley, non è stato l’inventore di Fortnite, Call of Duty, GTA 5 o Assassin’s Creed o Tik Tok a scrivere “vietato il gioco in cortile”, a impedire ai bambini di tornare a casa da soli. La virtualizzazione delle esperienze è frutto dell’angoscia di noi adulti, che abbiamo chiuso cortili e giardini, sequestrato il corpo dei figli in nome della prevenzione dei pericoli e di ogni possibile impedimento. E guarda caso l’attacco al proprio corpo è proprio la modalità elettiva attraverso la quale oggi l’adolescente esprime il proprio disagio.

E quindi?
Genitori, insegnanti, smettetela di pensare a voi stessi, pensate a loro. Invece noi pensiamo a noi stessi dicendo che pensiamo a loro. Ma la domanda vera è questa: che cosa abbiamo intenzione di fare per far sentire a questi ragazzi che sono attesi, che hanno un futuro, che ci sono adulti capaci di identificarsi con i loro bisogni attuali e futuri?

Quindi il metterci in ascolto dei figli è la soluzione?
Oggi la famiglia ascolta molto di più i figli di quanto venisse ascoltata la mia generazione. Il problema è se siamo in grado di ascoltare realmente chi abbiamo davanti e quindi di accettarne anche gli inciampi, i fallimenti, i dolori e le crisi della crescita, che sono i grandi rimossi da una società dove la fragilità adulta – non è solo quella di papà e mamma, ma anche quella degli insegnanti – porta a fare interventi stereotipati, a partire da quelli sugli strumenti del digitale, che però perdono di vista la persona, il figlio che abbiamo di fronte.

Quindi il rimprovero per l’uso di smartphone, social e videogiochi, visti come una perdita di tempo rispetto ai doveri da compiere sarebbe una sorta di retromarcia destabilizzante. Per questo dunque lei difende internet?
Difendo internet? Internet sono pronto a chiuderla domani, ma tutte le ricerche serie ci dicono che il futuro lavorativo sta lì, quindi dobbiamo aiutare i ragazzi a muoversi lì dentro. Internet non è uno strumento. E’ un ambiente dentro il quale i nostri ragazzi devono imparare a crescere. Sarò prontissimo a sostenere che gli adolescenti debbano usare meno il web quando vedrò i gruppi di WhatsApp delle madri chiusi immediatamente per decreto presidenziale, la politica non agire più nei social, i miei colleghi smettere di lanciare appelli dai propri profili social per dire a insegnanti e genitori che i ragazzi devono usare meno i social. Abbiamo apparecchiato un mondo in cui il lavoro per i nostri figli e studenti parte dal saper usare internet e poi con che coraggio diciamo che i problemi nascono solo da internet e videogiochi?

Eppure non si possono negare gli episodi di suicidio innescati da rapporti malati che si sono aperti online o di morti dovuti a giochi pericolosi scovati nei social…
Capisco, ma la colpa non è solo delle challenge, ma dei nostri modelli educativi. I ragazzi che pensano di suicidarsi hanno stilato un patto con la morte volontaria mica perché hanno dormito poco per colpa dello smartphone, ma perché non vedono futuro, perché incontrano adulti che continuano a fare loro la morale senza ascoltarli, senza capire e rispondere alle loro domande, senza dirgli che progetto possono avere per il loro futuro. Sono ragazzi che sentono di non avere uno spazio in cui sono pensati, “convocati”, un luogo dove qualcuno li ascolti per davvero. E allora si ritirano dalla vita oppure si ritirano nella vita. Sempre più ragazzi si suicideranno socialmente, chiudendosi in casa e non frequentando più la scuola. Oppure, come accade più spesso per le ragazze, abbiamo il disturbo della condotta alimentare.

Se ne esce solo mettendo in essere un nuovo modo di rapportarsi con i figli a casa e con gli studenti a scuola?
Bisogna puntare tutto sulla relazione e sulla conseguente responsabilizzazione. Attraverso la relazione oggi un ragazzo ti segue. Non ti segue a scuola sulla singola disciplina, che pensano che può essere recuperata. Quello che i ragazzi pensano non sia recuperabile, è il non essere pensato dall’adulto, è il non trovare un adulto in grado di offrire la relazione propria del ruolo di genitore o di insegnante. Al netto delle predisposizioni personali, la materia la segui perché vedi passione, perché c’è relazione, senti interesse verso di te. A mio avviso, l’adolescente è un soggetto sempre più esperto di relazioni. Il tema centrale è essere adulti in grado di offrire loro relazioni, adulti capaci di ascoltare e capire la singolarità, la specificità di chi hai di fronte. “Raggiungere” un figlio o uno studente dovrebbe essere il compito di noi adulti.

Capito. Nel corso della presentazione del libro organizzata da Pensiero Solido lei ha anche detto che la pandemia è una occasione...
Sono dell’idea che la pandemia debba essere un’occasione di crescita, di sviluppo. C’è una frase che mal tollero, quando dicono che è il momento di ritornare alla normalità di prima. Io mi auguro che invece questa pandemia sia un’occasione per andare avanti, per soffrire ma per costruire un progetto di futuro migliore. Lo ripeto. Gli adulti facciano sentire che sono in grado di identificarsi con i bisogni di questi ragazzi, tra cui quello di saper usare internet per costruire il proprio futuro.

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Antonio Palmieri
Antonio Palmieri

Antonio Palmieri, fondatore e presidente di Fondazione Pensiero Solido. Sposato, due figli, milanese, interista. Dal 1988 si occupa di comunicazione, comunicazione politica, formazione, innovazione digitale e sociale. Già deputato di Forza Italia

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