“Non siamo immaturi, siamo semplicemente giovani”. Una distinzione sottile ma di non poco conto quella proposta da Fabio Mondini de Focatiis per leggere lo stato di salute del venture capital italiano, di cui spesso e tanto si discute nell’ecosistema dell’innovazione. Lui è un imprenditore che a un certo punto della sua vita è diventrato investitore in startup e poi un business angel “organizzato” (più avanti spiegherà come). Ha vissuto e lavorato nei principali ecosistemi di venture capital internazionali – dalla Francia, a Singapore, alla Silicon Valley.
Fabio Mondini è tornato in Italia da pochi anni e non gli sta andando male e, intanto, con una delle sue due società – Growth Capital – tiene sotto controllo l’andamento degli investimenti sulle startup in Italia con un report trimestrale realizzato in collaborazione con Italian Tech Alliance. L’ultimo, che fotografa la situazione nei primi nove mesi del 2025, dice che le cose vanno bene ma non benissimo (qui puoi leggere i dettagli)
Fabio Mondini è stato tra i primi investitori di Keyless, che a fine ottobre ha annunciato la sua exit, e ha assistito Caracol nel recente round da 40milioni. Non può che essere cautamente ottimista: «L’Italia ha iniziato tardi, ma ha un enorme potenziale per crescere. Siamo quindi in fase di maturazione: i segnali positivi ci sono ma servono tempo, continuità e la capacità di guardare fuori dai confini”.
Sul mercato con Growth Engine e Growth Capital Fabio Mondini in questa conversazione racconta le sue sfide e quelle del venture capital italiano.
Partiamo da una buona notizia recente: la exit di Keyless. Cosa ha rappresento per te e per Growth Engine?
L’exit di Keyless è una tappa significativa, perché rappresenta uno degli investimenti più importanti che abbiamo seguito in questi anni. Quando sono entrato nel progetto, Keyless era ancora in fase di sviluppo, con un team giovane e molto promettente. Ho visto crescere l’azienda passo dopo passo, quindi la sua exit è una conferma del nostro approccio: seguire le startup sin dall’inizio e accompagnarle nella loro crescita.
Keyless è una delle startup che ha raggiunto una valutazione interessante, ma più in generale questa exit rappresenta un segnale positivo per il nostro ecosistema. Per noi è la quinta exit dell’anno e arriveremo a sei entro la fine del 2025. Il ritorno economico per noi è stato molto positivo, ma non è solo il denaro che conta: è anche la validazione del nostro approccio come primo investitore.
Come spesso accade nel venture capital, ci sono startup che richiedono anni di lavoro, di ricerca e sviluppo. Gli investitori, quando entrano in fase early stage, si espongono a un rischio elevato, ma sono anche quelli che, con pazienza, riescono a cogliere le prime grandi soddisfazioni. Questo è proprio il caso di Keyless. Ma voglio sottolineare che noi non ci fermiamo mai solo al capitale: puntiamo a generare competenze locali che poi possono crescere anche in un contesto internazionale.
Come sei entrato nel venture capital?
Il mio percorso è iniziato con l’ingegneria. Dopo gli studi in Italia, ho deciso di continuare a formarmi a livello internazionale, e quindi mi sono trasferito al MIT, dove ho avuto modo di confrontarmi con un mondo completamente diverso rispetto a quello italiano. Questo mi ha dato una visione più aperta delle opportunità che esistono a livello globale. Lì, non solo ho ampliato la mia rete professionale, ma ho anche imparato l’importanza della collaborazione internazionale.
Dopo il MIT, ho fatto un MBA a INSEAD, una delle scuole di business più prestigiose al mondo. Questo periodo è stato cruciale, perché mi ha permesso di entrare in McKinsey e successivamente in Enel, dove mi sono occupato di internazionalizzazione, portando progetti in vari Paesi e seguendo investimenti diretti in energia rinnovabile. Queste esperienze mi hanno dato una visione pratica delle dinamiche aziendali, ma è stato solo dopo aver ho deciso di diventare un imprenditore che ho veramente compreso l’importanza dell’investire nelle prime fasi di vita di una startup.
Nel 2011 ho venduto la mia prima azienda, sempre nel settore dell’energia rinnovabile, e da lì è cominciato il mio viaggio come business angel. La svolta è arrivata quando ho deciso di investire personalmente nelle startup, e dopo un periodo a Parigi con Idinvest Partners, ho visto crescere l’ecosistema delle startup globali. È stato un periodo di grande crescita, perché avevo l’opportunità di investire in scaleup che sono poi diventate realtà internazionali. Mi sono immerso completamente nel venture, ma sempre con l’approccio di chi vuole mettere al centro le persone e le idee.
L’ingresso in Idinvest Partners mi ha aperto le porte di un ecosistema globale, portandomi a lavorare con aziende in 17 Paesi e a seguire investimenti significativi come Grab a Singapore.
Nel 2021 decidi di rientrare in Italia. Che cosa hai trovato e perché hai creato Growth Engine?
Il rientro in Italia è stato per me una grande sfida, ma anche un’opportunità. Quando ho deciso di farlo, mi sono reso conto che c’era un enorme gap di competenze e di infrastrutture per le startup. L’Italia, pur avendo tante potenzialità, non aveva ancora una struttura adeguata per supportare le fasi iniziali del venture capital, come invece avviene in altri Paesi più avanzati come Francia, Regno Unito o Stati Uniti.
A livello fiscale, il sistema italiano non facilita chi decide di intraprendere un percorso da business angel, quindi ho deciso di creare una holding.: Growth Engine, una società di investimento che inizialmente era completamente mia. Poi sono entrati Andrea Marangione, Michele Appendino e Marco Ariello. La struttura è molto snella: nessun dipendente ma solo un comitato di investimento formato da noi tre. Growth Engine è sostanzialmente un veicolo per fare il lavoro del business angel in modo organizzato o, se vuoi, un modo per fare venture capital con un approccio molto personale.
La nostra filosofia è quella di fare investimenti nelle prime fasi, dove siamo i primi a credere nel potenziale delle startup. Questo approccio ha funzionato, come testimoniano i 57 investimenti fatti finora e i ritorni positivi che abbiamo ottenuto. Non siamo un fondo tradizionale, ma un gruppo di business angel che lavorano insieme per dare un’opportunità a chi ha una buona idea e voglia di crescere.
Se Growth Engine è la holding di tre business angel, cos’è Growth Capital? Che lavoro fa?
Growth Capital è la risposta a una domanda che veniva dalle stesse startup con cui lavoravamo tramite Growth Engine. Molte di loro avevano bisogno di supporto quando erano già cresciute abbastanza da dover affrontare round più grandi, ma non avevano ancora trovato la consulenza giusta per fare il salto. Con Growth Capital ci siamo specializzati nell’advisory per startup che avevano bisogno di raccogliere capitali per fare scaling.
La struttura è quella di una tech investment bank, con un team di 25 persone in tre sedi (Milano, Madrid, Londra) e una rete internazionale di fondi. Lavoriamo esclusivamente su round da 5 a 50 milioni di euro per startup che hanno già un buon track record, come Caracol, per cui abbiamo appena chiuso un round significativo con fondi internazionali. Growth Capital fa consulenza, ma non investe: si concentra su startup in fase di maturazione, pronte a scalare, e le aiuta a raccogliere capitali più consistenti. È il complemento perfetto di Growth Engine: uno investe nella fase iniziale, l’altro aiuta nella crescita e nell’espansione.
Come si inserisce A-Road in questo schema? È un’altra società?
No, A-Road non è una società, ma una iniziativa di accelerazione, che offre alle startup non solo investimenti, ma anche advisory strategica: nasce per colmare un gap tra Growth Engine e Growth Capital, un vuoto che riguardava le startup in fase di pre-Series A. Questa fase è troppo grande per essere gestita da noi come business angel, ma ancora troppo piccola per i round di investimento più grandi. In A-Road, le aziende firmano due contratti: un contratto di investimento con Growth Engine e un contratto di accelerazione con Growth Capital. Il valore aggiunto è che portiamo mentors di livello che normalmente non fanno mentoring nelle startup: CEO di gruppi da miliardi, fondatori di grandi aziende, manager che hanno costruito scaleup di successo. A-Road è pensata per startup che stanno cercando di crescere rapidamente, e ha già prodotto numerose exit.
In quattro anni ne avete fatte di cose. In quale mercato ti sei mosso? Quali limiti vedi ancora nel venture capital italiano?
Il limite principale del venture capital italiano è il gap culturale. A livello internazionale, soprattutto in Paesi come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, i fondatori e gli investitori hanno un’esperienza consolidata che si tramanda nel tempo. Esiste una vera e propria community di venture che collabora e si sostiene vicendevolmente, ma in Italia questa dinamica è ancora agli inizi.
Un altro limite riguarda le dimensioni dei fondi. I fondi italiani sono spesso piccoli e focalizzati esclusivamente sul mercato domestico, mentre per fare veramente la differenza bisogna avere una visione internazionale. Non basta guardare solo all’Italia: occorre pensare a come la startup può crescere e scalare sui mercati globali. Avere una strategia internazionale è fondamentale, e molti fondi italiani hanno ancora difficoltà a uscire da questa mentalità ristretta.
C’è poi un tema legato alla fiscalità: il sistema italiano non facilita il venture capital, e questo è un aspetto che incide non poco sulla competitività. Quando guardo alla Francia, ad esempio, mi rendo conto che il sistema fiscale ha avuto un impatto enorme sulla crescita dell’ecosistema.
Un altro aspetto importante è la mancanza di corporate venture capital. In Paesi più avanzati, le grandi aziendeinvestono nelle startup e le acquisiscono. In Italia, questo fenomeno sta iniziando, ma è ancora troppo limitato. La vera crescita del venture italiano dipenderà anche dalla capacità delle corporate italiane di fare M&A e reinvestire nelle startup. Non possiamo dipendere solo dagli investimenti esteri.
Perché Growth Capital ha deciso di monitorare il mercato degli investimenti di venture capital in Italia?
Ogni trimestre, con Italian tech Alliance, facciamo un report dettagliato sugli investimenti, cercando di capire dove sono i limiti, le opportunità e i settori più promettenti. In questo modo, ci proponiamo come un ponte tra gli attori locali e quelli internazionali, cercando di sensibilizzare sull’importanza di costruire un network più forte e interconnesso.
Siamo convinti che il monitoraggio costante possa aiutare a far crescere il venture capital italiano, aumentando la consapevolezza e facilitando la collaborazione tra i diversi attori dell’ecosistema.
Dove vedi l’Italia del venture capital nei prossimi 5-10 anni?
Sono molto ottimista per il futuro. L’Italia ha tutte le carte in regola per diventare un hub di venture capital più solido e internazionale. Oggi stiamo facendo circa 50 Series A all’anno, un numero simile a quello di ecosistemi più avanzati. Il passo successivo sarà quello di riuscire a creare un flusso di Series B e C, e questo richiederà un grande lavoro da parte di tutti gli attori coinvolti: fondi, imprenditori, corporate. Nei prossimi anni vedremo un ecosistema più maturo, con fondi italiani che cresceranno e riusciranno a operare su round più grandi. Ma per farlo, dobbiamo focalizzarci su due cose: il networking internazionale e la competenze locali. Sono convinto che l’Italia possa raggiungere i livelli di ecosistemi più maturi, ma ci vorranno tempo, exit e tanto lavoro.







