L’economia sociale non è più un settore residuale né una questione di welfare: sta diventando una componente strategica della politica industriale europea.
Nel suo intervento alla presentazione del Report sulle startup a impatto sociale e ambientale in Italia del Politecnico di Torino, il 22 ottobre scorso, Mario Calderini, Presidente dell’Italian Competence Center for Social Innovation (ICCSI), ha delineato con chiarezza le opportunità e i rischi di questa trasformazione.
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Cos’è l’ICCSI
L’ICCSI è stato fondato nel 2024 nell’ambito delle iniziative della Commissione Europea sostenute dai programmi EaSI ed European Social Fund Plus (ESF+) e riunisce partner di spicco quali il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, l’Università di Bologna, EURICSE e la Fondazione Giacomo Brodolini. La sua missione è quella di costruire un ponte tra le politiche pubbliche e le pratiche sociali innovative.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha designato l’Italian Competence Centre for Social Innovation (ICCSI) come validatore nazionale delle migliori pratiche italiane candidate sulla piattaforma europea Social Innovation Match, lo strumento ufficiale dell’Unione europea per la condivisione di conoscenze ed esperienze di innovazione sociale.
Chi è Mario Calderini
Mario Calderini è professore ordinario alla School of Management del Politecnico di Milano, dove insegna Management for Sustainability & Impact. Economista di formazione, con Ph.D., da oltre vent’anni lavora su innovazione responsabile, finanza sostenibile e politiche pubbliche per l’impatto. È direttore di TIRESIA, il centro di ricerca del Politecnico dedicato a finanza e innovazione a impatto sociale. È portavoce e tra i promotori di Torino Social Impact e membro dell’Expert Group on Social Economy and Social Enterprises della Commissione europea. Nel 2021 è stato inserito da Apolitical tra i 100 accademici più influenti per i governi a livello mondiale. Guida il Foro Regionale per la Ricerca e l’Innovazione di Regione Lombardia. Ha collaborato con le istituzioni come consigliere su ricerca, innovazione e impresa sociale, partecipando anche ai lavori della Presidenza italiana del G7. Autore di numerosi saggi e articoli, è considerato un riferimento in Italia ed Europa sui temi di innovazione sociale e finanza a impatto. Svolge inoltre attività di divulgazione e formazione, anche con Feltrinelli Education.
L’analisi del presidente Calderini parte da un dato politico: l’imprenditorialità sociale sta guadagnando legittimità nelle strategie di crescita, ma in un momento storico in cui il clima culturale non è necessariamente favorevole all’innovazione a impatto.
L’economia sociale come politica industriale
Calderini ha osservato che, a livello europeo, l’economia sociale vive una fase di “strana popolarità”. Da un lato, cresce il riconoscimento istituzionale, dall’altro si indebolisce il sostegno politico esplicito.
Un esempio emblematico, ha ricordato, è la decisione della Commissione Europea di ridurre il peso del pilastro “Growth” (crescita) all’interno delle politiche dedicate alla social economy, lasciando prevalere quello “Employment” (occupazione e inclusione sociale).
“È un segnale simbolico ma rilevante”, ha spiegato Calderini, “perché rischia di confinare l’economia sociale alle politiche del lavoro, anziché considerarla un motore di sviluppo economico”.
Nonostante questo, il quadro italiano mostra segnali positivi. Il Piano Nazionale per l’Economia Sociale, lanciato dal governo nel 2025, riconosce esplicitamente le imprese sociali e le startup a impatto come pilastri della politica di sviluppo, non solo come strumenti di coesione territoriale.
Un passaggio che, secondo Calderini, può cambiare la traiettoria del Paese: “Finalmente disponiamo di un piano d’azione che mette l’imprenditorialità sociale al centro della crescita, e non ai margini”.
Le potenzialità di un settore diffuso sul territorio
Uno dei punti più forti dell’intervento riguarda la capillarità dell’imprenditorialità sociale.
A differenza dell’innovazione tecnologica tradizionale, spesso concentrata nei grandi centri urbani e negli ecosistemi universitari, le imprese sociali sono diffuse in modo omogeneo sul territorio nazionale, comprese le aree interne.
Questo le rende strumenti di coesione e rigenerazione economica locale, in grado di generare valore dove l’industria tradizionale non arriva più.
Calderini ha sottolineato che in Italia si contano oltre 25.000 imprese sociali registrate e circa 30.000 organizzazioni che, pur avendo forme giuridiche diverse, operano a tutti gli effetti con finalità di impatto sociale.
Da qui una stima interessante: “Se anche solo l’1% di queste imprese riuscisse a trasformarsi in startup o a scalare il proprio modello, potremmo generare circa 250 nuove imprese innovative ogni anno”.
Un risultato che, ha aggiunto, “gli incubatori universitari da soli non potrebbero ottenere”, a dimostrazione del potenziale latente del settore.
Incubatori, competenze e politiche di capacity building
Perché questo potenziale si traduca in crescita reale, servono nuove politiche di accompagnamento. Calderini propone di ripensare il ruolo degli incubatori e degli acceleratori universitari, rendendoli capaci di sostenere non solo startup high-tech ma anche imprese che generano impatto sociale.
“L’imprenditorialità a impatto ha logiche diverse da quella tecnologica”, ha ricordato, “richiede strumenti finanziari e percorsi di incubazione specifici”.
Allo stesso tempo, è necessario un investimento nella capacity building delle pubbliche amministrazioni, a livello locale, regionale e nazionale.
Secondo Calderini, le istituzioni devono acquisire una cultura e strumenti operativi per riconoscere e sostenere le imprese a impatto come parte integrante delle politiche territoriali.
Questo significa anche superare quella “retorica tecnologica” che per anni ha guidato le politiche industriali, concentrandosi su modelli importati dalla Silicon Valley, difficilmente replicabili nel contesto italiano.
Dal modello Silicon Valley all’impresa diffusa
Il riferimento ai modelli della Silicon Valley non è casuale. Calderini invita a superare l’idea che l’innovazione debba necessariamente nascere da grandi hub tecnologici o da startup a forte intensità di capitale.
“Dobbiamo immaginare politiche di trasferimento tecnologico pensate per chi fa impresa con finalità sociali, non solo per chi sviluppa brevetti o software”, ha spiegato.
Il rafforzamento tecnologico delle imprese sociali — anche di quelle con un’elevata intensità di lavoro — può generare valore economico e occupazionale, ma con un impatto territoriale più equo.
In altre parole, la redistribuzione del valore industriale passa attraverso la diffusione dell’imprenditorialità sociale, che diventa così anche uno strumento di sviluppo regionale.
Il ruolo dell’Italian Competence Center for Social Innovation
Come Presidente dell’Italian Competence Center for Social Innovation (ICCSI), Calderini ha descritto la missione del centro come un punto di riferimento per le pubbliche amministrazioni e per le imprese che operano nell’ambito dell’innovazione sociale.
Il centro, nato su impulso della Commissione Europea, ha l’obiettivo di fornire competenze, benchmark internazionali e modelli di policy per accompagnare lo sviluppo di ecosistemi locali dell’impatto.
In collaborazione con il Politecnico di Torino e altri atenei, l’ICCSI si propone di creare una nuova generazione di politiche pubbliche dedicate all’imprenditorialità a impatto sociale, fornendo supporto tecnico e formativo alle amministrazioni interessate a implementare programmi di sostegno all’innovazione sostenibile.
L’obiettivo non è creare nuove strutture burocratiche, ma rafforzare le capacità esistenti, mettendo in rete conoscenza, esperienze e risorse.
Un nuovo paradigma di crescita
Nelle parole di Calderini, emerge una visione precisa: la crescita economica non può più essere separata dalla coesione sociale.
“In un Paese come l’Italia, è impossibile immaginare politiche di crescita che non siano anche politiche di coesione”, ha affermato.
L’imprenditorialità sociale, intesa in senso ampio, offre quindi una doppia funzione: genera innovazione economica e, al tempo stesso, costruisce capitale sociale, distribuendo opportunità in modo più equilibrato.
Il discorso del Presidente dell’ICCSI si inserisce in una riflessione più ampia sul futuro delle startup a impatto.
Se nei precedenti interventi del Social Innovation Monitor erano emerse le dinamiche economiche e normative del settore, la prospettiva di Calderini sposta il focus sulla governance delle politiche pubbliche: un ecosistema che favorisca l’innovazione sostenibile non solo attraverso fondi, ma anche tramite regole, competenze e collaborazione tra attori diversi.
L’imprenditorialità come leva di coesione
L’idea di fondo è che la crescita inclusiva non nasca da un settore specifico, ma da un nuovo modo di concepire l’imprenditorialità.
La startup a impatto non è un’eccezione, ma una possibile evoluzione del modello d’impresa italiano, capace di unire produttività e responsabilità.
Come ha sintetizzato Calderini, “l’imprenditorialità a impatto sociale non è un modello laterale o strano, ma semplicemente il modello d’impresa del futuro”.Un’affermazione che riassume il senso profondo del suo intervento: la sfida non è più dimostrare che l’impatto può convivere con il profitto, ma fare in modo che diventi la regola di un’economia capace di includere e innovare allo stesso tempo.





