Che cosa vuol dire fare exit (e perché spesso se ne parla a sproposito)

È il termine magico dell’ecosistema. A volte viene confuso con qualunque acquisizione di una società da parte di un’altra. Tecnicamente, è la vendita di quote da parte di un imprenditore o di un investitore, con conseguente “uscita” dall’investimento. Ecco i dettagli da conoscere

Pubblicato il 14 Lug 2015

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Investimenti, acquisizioni di nuove imprese da parte di colossi, fusioni e… exit. Parola magica, quest’ultima, che rappresenta il sogno di chi fa impresa ai tempi di Mark Zuckerberg e che sistematicamente viene utilizzata anche per definire operazioni che, tecnicamente, exit non sono. Una confusione a cui hanno contribuito anche gli stessi protagonisti dell’ecosistema italiano.

Che significa quindi “exit”? Tecnicamente si definisce così la vendita delle quote di una società (non necessariamente una startup) da parte di un fondatore o di un soggetto che vi ha investito (business angel, società di venture capital, family office, investitore privato) al fine di realizzare un guadagno. Si parla di “exit” perché cedendo le proprie partecipazioni un imprenditore (o un investitore) esce dall’investimento fatto. Non a caso, un sinonimo di exit sarebbe “disinvestimento”, ma non è di uso frequente, forse perché può suggerire un significato non positivo.

Come può avvenire l’exit
L’exit si realizza principalmente in due modi. Quando le quote sono vendute sul mercato azionario, l’exit coincide sostanzialmente con la quotazione in Borsa. Diversamente, un’exit ha luogo cedendo le quote a un’azienda più grande, che generalmente collabora con la società acquisita anche dal punto di vista organizzativo e industriale, oppure a un altro soggetto che opera a livello finanziario, come un fondo di private equity.

Perché l’exit è desiderabile per l’investitore
L’exit è l’obiettivo principale di chi investe in startup perché rappresenta il coronamento del percorso iniziato al momento dell’investimento. E si tratta di un’exit di successo nel momento in cui il valore a cui le quote sono vendute è nettamente superiore a quello a cui sono state acquistate. Per molti soggetti che fanno dell’investimento in nuove imprese ad alto potenziale di crescita il proprio mestiere è una buona exit solo quella in cui il valore è di almeno dieci volte la somma investita. Un fondo di venture capital, per esempio, raccoglie sul mercato le risorse da investire in startup e deve corrispondere una rendita ai sottoscrittori del fondo. Se il valore a cui le quote sono vendute non è abbastanza elevato, non ci sono abbastanza risorse per ripagare capitale e interessi di chi ha sottoscritto il fondo.

Perché l’exit è desiderabile per l’imprenditore-fondatore
L’exit non è il fine ultimo di tutti gli imprenditori ma soltanto di quelli che creano un’impresa per poi ottenere un guadagno dalla vendita: è il caso, per esempio, dei cosiddetti “imprenditori seriali”, che venduta una propria società utilizzano una parte delle risorse ottenute per crearne una nuova. L’exit può essere inoltre l’obiettivo di quegli imprenditori che continuano ad avere un ruolo di riferimento nella propria società – continuando a esserne i ceo o comunque occupando una posizione da top manager – anche dopo la cessione a un’altra società o alla vendita sul mercato azionario.

In questo periodo storico la maggior parte delle startup hi tech, per dna e configurazione, segue un percorso in cui la gran parte delle risorse destinate alla crescita proviene da soggetti terzi che investono. Va da sé quindi che molti dei nuovi imprenditori sperino in una exit per continuare a operare: se gli investitori non guadagnano dal proprio investimento, possono smettere di dare ossigeno finanziario alla startup, determinando in molti casi la morte della neoimpresa. Viceversa, un imprenditore che segue il percorso delle Pmi italiane, basate sostanzialmente sull’autofinanziamento o sull’indebitamento, non ha generalmente l’obiettivo di vendere la propria azienda ad altri ma punta a farla crescere, magari accettando l’ingresso di nuovi investitori (e, contemporaneamente, la propria “uscita” parziale dall’investimento).

(aggiornato il 10 marzo 2016)

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