L'INTERVISTA

Che cosa rivela sulla vita delle startup l’exit di Fluidmesh comprata da Cisco

La exit di Fluidmesh con Cisco arriva 15 anni dopo la fondazione. “Per crescere ci vuole tempo”, dice il founder Umberto Malesci, che racconta la sua esperienza. “La velocità è un mito, soprattutto nel mercato delle tecnologie industriali. Scappare dall’Italia è un suicidio. Pensare che i soldi siano la soluzione un errore”

Pubblicato il 07 Ago 2020

Umberto Malesci, al centro, tra il fratello Cosimo (a destra) e Andrea Orioli, cofounders di Fluidmesh con Torquato Bertani

Parlare di startup per Fluidmesh è come parlare dell’infanzia di un adolescente che sta per diventare adulto.  Ma l’exit di Fluidmesh con Cisco dice molto sulla vita reale delle startup. La società italiana ma anche americana (e poi vedremo perché) è infatti quasi maggiorenne, visto che è stata fondata nel 2005, e da luglio è a tutti gli effetti entrata nella galassia di Cisco, multinazionale abituata a crescere e ad arricchire i suoi asset con le acquisizioni (oltre 225 nei suoi 36 anni di vita), che aveva comunicato in aprile l’intenzione di comprare Fluidmesh. Ma la parabola di Fluidmesh è emblematica dei tempi di maturazione di un percorsi imprenditoriale e rivela alcuni luoghi comuni sulle startup. Ce la racconta Umberto Malesci, 39 anni, fiorentino, che l’ha fondata con il fratello Cosimo e due amici/colleghi del Politecnico di Milano, Andrea Orioli e Torquato Bertani.

Fluidmesh è una tech company che sviluppa sistemi wireless per grandi aree industriali, soprattutto all’aperto, e per applicazioni mobili che riescono a risolvere i problemi di comunicazione di dati lì dove il wifi tradizionale fallisce. Qualche esempio: il treno che si muove a 300 km e non deve perdere la connessione, una linea di metropolitana o, adesso, i robot che si muovono nelle aree portuali (qui si può leggere di più sulle tecnologie di Fluidmesh).

Umberto, perché Fluidmesh ha  impiegato 15 anni a fare la sua exit con Cisco nonostante la startup sia nata negli Stati Uniti?
Non si può avere fretta quando si fa impresa. Ci vuole del tempo per affermarsi sul mercato e diventare interessanti per un grande gruppo come Cisco, anche quando vai subito sul mercato americano. È molto più dura di quanto le persone pensino e prevedano. E molto più lunga. Le cose nel mondo reale avvengono con tempi lenti.

Quindi sbaglia chi pensa di poter fare la exit in 5 anni, magari restandosene fra Milano e Roma?
Le exit in 3-5 anni sono eccezioni. Bisogna poi capire in quali mercati si opera: quelli consumer possono avere accelerazioni molto forti, magari sostenute da grandi iniezioni di capitali. Anche se è molto difficile che questo accada, non dico in Italia, ma in Europa.

Perché nel b2b e nei mercati industriali i tempi sono più lunghi?
Noi abbiamo cominciato a lavorare con la public safety, forze di polizia, igoverni e militari, poi siamo passati alle ferrovie, le miniere e i porti industriali. Siamo nella old economy dove la digital transformation avviene in anni. Faccio un esempio: siamo entrati nel mercato ferroviario e dei trasporti tra il 2011 e il 2012 e abbiamo impiegato circa tre anni per generare il primo dollaro di fatturato in quel settore. All’inizio non hai credibilità e per crearla serve tempo. Il primo anno vendi un progetto, il secondo due, dopo cinque anni avevamo un fatturato significativo, dopo otto anni siamo diventati il market leader e, a parte una compagnia, lavorano tutte con noi.

Perché è servito tanto tempo a Fluidmesh per crescere e arrivare alla exit con Cisco?
Le decisioni nelle grandi aziende e nelle pubbliche amministrazioni sono lente, l’adozione di un tecnologia, soprattutto se è proposta da una piccola società senza un grande marchio, è lenta. Del resto chi in una grande azienda compra una nuova tecnologia si gioca il posto di lavoro e prima di scegliere una soluzione innovativa fa mille test, chiede validazioni, controlli. E due anni passano in una batter d’occhio.

Quindi la crescita veloce ed esponenziale è un mito?
Sì, bisogna sfatare questo mito della crescita veloce, dei soldi che si fanno rapidamente: accade raramente così, soprattutto quando devi vendere tecnologia nei mercati industriali. Cresci piano anche se hai la cassa piena di soldi. Serve tempo per tranquillizzare la grande azienda che compra la tecnologia da un newcomer

Neanche gli investimenti del venture capital possono ridurre questi tempi?
Certo che aiutano a ridurli, ma non li eliminano di certo. Se ho soldi, magari possono assumere persone competenti o qualificate che accrescono la credibilità del prodotto. Ma invece di cinque anni, per entrare in un mercato, ce ne impegno tre o quattro, magari spendendo 10 volte di più.

Come è nata l’idea di Fluidmesh?
Mentre stavo facendo il master al MIT dopo la laurea in ingegneria informatica, parlandone con mio fratello Cosimo, di un anno più giovane, che intanto frequentava lì ingegneria meccanica e navale. Avrebbe dovuto progettare yacht e barche a vela e invece si è ritrovato a fare radio per le forze di Polizia…

Ma come viene in mente a un ragazzo di 24 anni di creare un’impresa per sviluppare applicazioni delle tecnologia wireless mesh?
Era il tema della mia tesi di ricerca, anche se poi la tecnologia che abbiamo sviluppata in Fluidmesh è un po’ diversa. Abbiamo cominciato a sviluppare un’applicazione per forze di polizia, viste le caratteristiche di sicurezza della soluzione. Eravamo vicini ai fatti dell’11 settembre, quindi c’era grande attenzione alla sicurezza pubblica.

Essere al MIT vi ha aiutato?
Certamente il fatto di stare al MIT ti da una grande spinta imprenditoriale. Sin dal primo giorno ti dicono: se prendi tutte le imprese create da ex allievi, si crea una nazione con un PIL che sarebbe la 24 potenza mondiale, superiore alla Danimarca. Ti fanno un lavaggio del cervello da mattina a sera. Ma abbiamo trovato lo spirito imprenditoriale giusto fra i nostri amici italiani e non a Boston, Un altro mito da sfatare: eravamo nella culla dell’innovazione tecnologica ma la sintonia migliore è stata con due amici di vecchia data, due ingegneri meccanici del Politecnico di Milano.

Fluidmesh nasce come azienda americana o italiana?
Siamo partiti con una società americana perché con m io fratello ci trovavamo negli States. Poi ci siamo resi conto che avere il team di ricerca e sviluppo li non era conveniente, per due ragioni: il costo dei talenti e la difficoltà di trattenerli. Invece in Italia c’era, e c’è, la possibilità di trovare ottimi talenti a costi decisamente più bassi e con un più alto tasso di stabilità aziendale. Restare 10 anni nella stessa azienda a Boston o in Silicon Valley non esiste. Ma questo è un valore enome per un’azienda. Quindi abbiamo fatto la srl in Italia, anche se abbiamo tenuto gli Stati Uniti come mercato di riferimento per cresce in maniera più semplice. Il limite dell’Italia e dell’Europa è che un mercato molto frammentato dove crescere è complicato, costoso e lungo. Dopo esserci affermati negli Stati Uniti siamo tornati in Europa perché eravamo diventati un’azienda vera.

Se Fluidmesh era diventata un’azienda vera e profittevole (circa 20milioni il fatturato 2019 con 60 persone sparse per il mondo), perché avete deciso di vendere a Cisco di cui eravate già partner? È stata fatta un’offerta che non si poteva rifiutare?
L’opportunità con Cisco non si poteva ignorare. Fluidmesh era un’azienda vera che però sviluppava una tecnologia specifica, un solo prodotto che veniva venduto all’interno di un sistema più grande. Per il cliente che compra la soluzione contavamo quindi relativamente poco. Faccio un esempio concreto. Milano Linea 4, dove Ansaldo STS ora del gruppo Hitachi è il nostro cliente. Per connettere il treno automatico alla centrale devono comprare un sistema che ha dentro server, router, switch, apparati radio. Hanno comprato un pacchetto di tecnologie da Cisco con un componente, che veniva da noi: la parte wireless, la nostra specialità, che connette il treno a terra. Ma al cliente interessa la soluzione complessiva e per questo aveva senso prima la partnership e poi l’ingresso in Cisco.

Che cosa cambia per Fluidmesh dopo la exit con Cisco, adesso che è diventata una linea di prodotto nella divisione IoT dell’azienda?
La prima cosa? Il nostro prodotto prima er avenduto da una ventina di commerciali, oggi da 20mila nel mondo. Un bel upgrade, no? Adesso abbiamo un’intera soluzione da proporre al cliente. L’altra cosa che cambia è il marchio e la reputazione dell’azienda. Fluidmesh aveva reputazione molto forte in alcuni verticali ma ogni volta che volevamo crescere in un nuovo settore facevamo una grande fatica. Con un marchio come Cisco abbiamo il vantaggio di una forte reputazione e di una presenza commerciale in quel verticale. Quindi ingresso sui mercati è più rapido. Da quando abbiamo annunciato acquisizione a inizio aprile, stiamo ricevendo richiesta da ogni paese del Mondo e da ogni Industry. Quindi cambia la possibilità di accelerare.

Sopravviverà il marchio Fluidmesh in Cisco?
È un tema ancora in discussione. Penso che resterà legato al prodotto per un certo periodo di tempo ma in prospettiva scomparirà, come è accaduto per quasi tutte le acquisizioni fatte da Cisco.

E che cosa cambia per l’imprenditore Umberto Malesci?
Io continuerò a lavorare sulla parte Fluidmesh perché è necessario garantire la continuità di gestione e coordinamento. Poi la mia responsabilità sarà aiutare la divisione IoT a replicare il successo di Fluidmesh in alcuni mercati espandendo la linea di prodotti che i clienti stanno utilizzando. Far si, ad esempio, che il cliente ferroviario che utilizza il prodotto radio di Fluidmesh vada a utilizzare l’intera soluzione IoT Cisco.

Hai un periodo di lockup?
Diciamo che ambisco a una lunga carriera in Cisco.

Dov’è casa tua: in Italia o negli Stati Uniti?
In Italia, prima del coronavirus la mia vita era molto avanti e indietro. la mia vita era molto avanti e indietro. Fluidmesh ha la sede commerciale a Milano, lo sviluppo hardware e software a Pisa. Il Covid ha cambiato tutto. Gli ultimi mesi mi sono reso conto che molte cose si possono fare a distanza.

Quindi in questi ultimi 15 anni hai vissuto intensamente e professionalmente gli Stati Uniti ma hai continuato a seguire le dinamiche italiane. Come vedi la situazione attuale rispetto a quando avete cominciato voi? Oggi più semplice o più difficile fare impresa innovativa?
Nè più facile, né più difficile. Il mercato rema sempre contro i più piccoli. Io sono estremamente ottimista sull’Italia. Chi vuol fare qui innovazione ha un vantaggio pazzesco: ha un pool di talenti non sfruttati a un costo ridicolo. Può quindi avere una struttura di costi leggera. Se è vero che il team fa il successo delle aziende, qui abbiamo un tesoro nascosto che in Silicon Valley pochi conoscono. Adesso stanno cominciando a scoprirlo. E anche in Cisco lavorerò per valorizzarlo sempre di più a vantaggio della grandi e delle piccole imprese.

Bastano i talenti da soli?
I talenti ci sono sempre stati. Le università formano bene i nostri ingegneri, ma le aziende italiane investono poco in innovazione e quindi finiscono per fare lavori poco stimolanti. Ma se qualcuno ha idee innovative con una visione globale, riesce ad avere successo. E ci sono molti casi che lo confermano.

Quindi non serve per forza andare in Silicon Valley?
Assolutamente no. Dipende anche da quel che si vuole fare, ma fare le valigie, scappare dall’Italia e perdere questo vantaggio maggio competitivo mi sembra un suicidio. Con Fluidmesh noi abbiamo cercato di prendere il buono degli Stati Uniti e il buono dell’Italia. Credo che sia la soluzione migliore.

C’è qualcosa che non ti piace nell’ecosistema italiano?
Sì, ci sono tante cose che non funzionano. Innanzitutto le aziende italiano non comprano o comprano poco le startup e soprattutto non le pagano bene. Quindi se non funziona il sistema delle exit, non gira la ruota della finanza. Quindi il primo problema è la mancanza di exit. nziona il sistema della finanza. Primo problema: mancano le exit. Noi siamo la 227 acquisizione nella storia di Cisco. Quante ne fanno ogni anno le grandi aziende italiane?. Se non c’è mercato delle acquisizione non c’è il mercato dei capitali perché non c’è ritorno per gli investitori. Questa parte della macchina non funziona proprio.

La disponibilità delle risorse finanziarie per le startup adesso in Italia sta aumentando, grazie anche all’intervento pubblico del Fondo Nazionale Innovazione. Non basta quindi mettere più capitali sul mercato per far crescere l’ecosistema?
È utile ma non è la soluzione. Se non ci sono finanziatori, non è perché i venture capitalist cono cattivi ma perché non riescono a dare un ritorno ai loro investitori. A mia conoscenza non c’è un fondo italiano che abbia dato ritorni positivi. Perché? Non hanno exit di grande successo. Adesso magari qualcuno scriverà per smentirmi ma se lo farà, è l’eccezione. Adesso vedo un cambio di marcia sul fronte degli investimenti, ma non vedo la stessa cosa da da parte dei compratori. L’alternativa alla vendita? Lo sappiamo è quotarsi ma in Italia non c’è tradizione ed è ancora una strada poco praticata. Il meccanismo delle exit, che è la parte finale del sistema dell’innovazion, in Italia è ancora fermo. Se si sblocca, tutto il resto funzionerà.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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