L'INTERVISTA

Piol a Di Camillo “C’è fermento nel venture capital italiano, ma manca la cultura dell’investimento”

Il Managing Partner del fondo P101 incontra Elserino Piol, 86 anni, guru dell’hi-tech e padre del VC italiano, che dice: “Disponiamo di capitali limitati, si sta facendo qualcosa ma non abbastanza”. Sulle startup aggiunge “Conta l’imprenditore, l’idea da sola non serve. Bisogna investire in imprese bambine, non in nane”

Pubblicato il 18 Lug 2017

VC HUb Italia

Padre di Internet, guru dell’hi-tech, fondatore del venture capital all’italiana. Una via di mezzo tra Warren Buffett e Steve Jobs (secondo Pier Luigi Celli, ex direttore generale della Rai e della Luiss e prima direttore del personale in Olivetti). Le definizioni si sprecano, parlando di Elserino Mario Piol, classe 1931 da Limana, Belluno, grande vecchio dell’innovazione in salsa tricolore. In quale si riconosce di più? “Direi che sono tutte un po’ esagerate”, si schermisce lui, Piol, che ci parla al telefono con parole che non sanno di amarcord – come ci si sarebbe potuti aspettare da un signore che ha raggiunto la ragguardevole età di 86 anni – ma sono fortemente proiettate al futuro.

Elserino Piol
Il nome di Piol è legato a doppio filo a quello della Olivetti, dove inizia a lavorare a 21 anni come programmatore da perito industriale, poi si laureerà in ingegneria e seguiranno lauree honoris causa e molto altro. Il genio ruvido con le bretelle rosse (secondo un altro archetipo che lo descrive alla perfezione), Piol fu il manager che capì per primo le potenzialità della telefonia mobile e diede un contributo fondamentale alla fondazione della Omnitel, ma è anche la persona che a un Federico Marchetti sconosciuto e alla sua idea di mixare moda ed e-commerce diede credito – sia nel senso di fiducia sia in quello di denaro sonante. Credito grazie al quale nacque Yoox, la vera prima start-up italiana e l’unico unicorno (che è riuscita a superare il miliardo di euro in valore).

 Insomma, che lei sia il papà italiano del venture capital sembra innegabile…

E va bene, lo ammetto. Ma è andata così: nel 1980 Olivetti voleva monitorare i progressi della tecnologia in modo da potersi avvantaggiare dell’innovazione. Fui inviato negli Usa a caccia di innovazione tra Boston e la Silicon Valley. Là venni in contatto con il venture capital: tra il 1980 e il 1995 Olivetti fece negli Usa 63 operazioni, investendo 138,7 milioni di dollari. In questo modo il venture capital è arrivato in Italia dove prima era pressoché sconosciuto.

 A un certo punto, molti anni dopo, lei lasciò la Olivetti e decise di dedicare l’ultima parte della sua carriera al venture capital. Ce lo racconta?

Il mio primo investimento italiano risale al 1998: due milioni di euro in Tiscali, che era un’azienda sconosciuta. Nel 2001, al momento di vendere, valeva 500 milioni. Nel 1998 avevo fondato ed ero presidente della Pino Venture Partners, a sua volta partner dei fondi Kiwi e Kiwi II. Ero un capitano di ventura: ho investito in Vitaminic, Click.it, Elitel, Blixer, Cubecom, Venere.com. E Yoox, certamente.

 Federico Marchetti racconta sempre di averle raccontato l’idea in maniera quasi informale e che lei la abbia accolta senza troppe complicazioni…

Marchetti era venuto da me a propormi l’idea, è vero, è stato facile. Me l’ha presentata e io l’ho trovata interessante. Ho aderito e la cosa è partita. C’erano altre iniziative nella moda in Europa, ma questa aveva i numeri per funzionare.

 Non le sembrava una cosa folle?

L’idea che stava dietro a Yoox era normale rispetto agli standard di investimento a cui mi ero abituato in Usa. Non consueta sicuramente per il mercato italiano e sapevo che ci fosse un rischio, ma alla fine si investe sulla persona più che sull’idea, e Marchetti era una persona seria e preparata e appassionata. Se lo meritava. E ho avuto ragione.

 Lei ne parla quasi come di una missione: eppure in Italia il venture capital non decolla. Cosa manca?

Io vedo che invece qualcosa si sta muovendo, ci sono operatori che fanno cose importanti, vedo un certo fermento. Certo manca il capitale: quello di cui il venture capital dispone è molto limitato e siamo lontanissimi dal Regno Unito, per fare un esempio a noi vicino. C’è un problema di cultura del venture capital che manca: anche in questo ambito qualcosa si fa, ma non abbastanza.

 Lei cosa farebbe?

Secondo me bisogna far partire le iniziative: se danno luogo a risultati positivi, poi successo chiama successo. E soprattutto bisogna valorizzare le persone.

 Persone contro idee: cosa conta di più nella riuscita di un progetto?

L’idea è una condizione necessaria ma non sufficiente; se l’idea è valida e chi dovrà trasformarla in impresa è una persona di valore, allora gli ingredienti ci sono tutti. Se il manager non è valido, l’idea da sola non serve a niente.L’imprenditore fa l’impresa.

Possiamo dire che questa sia una regola aurea del venture capital? Selezionare persone prima che idee? Quali sono le altre regole?

Ne ho un’altra fondamentale: bisogna investire in imprese dal forte contenuto di innovazione. L’innovazione è la benzina per crescere. Mi piace dire che bisogna investire in aziende bambine, piccole ma destinate a crescere, non in aziende nane che sono piccole e rimangono tali. Bisogna scegliere progetti che contengano in nuce la capacità di affrontare il mercato e i suoi cambiamenti.

 Ingegner Piol, ci sarebbe ancora bisogno di lei e della sua filosofia olivettiana: non le manca il venture capital?

Ma no, non mi manca. Seguo tutto quello che accade, da lontano. E godo del mio risposo.

(Questo articolo è pubblicato anche nel blog di P101, società di venture capital)

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