La storia

RivaReno, il gelato fatto tutto in famiglia

L’azienda di Bologna, che dopo l’Australia sbarcherà presto in Spagna, è nata 10 anni fa dalla passione di un ex manager e della moglie, ex giornalista Bbc. «Inutile un marchio per la produzione made in Italy», dice Nicola Greco. Che ringrazia i concorrenti Grom, perché….

Pubblicato il 21 Gen 2015

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Nicola Greco e Lynn Ya Ping, co-fondatori di RivaReno

Per quanto possa suonare banale, il gelato è buono solo se chi lo fa ci mette passione. Lo sanno bene Nicola Greco e Lynn Ya Ping, i coniugi che hanno fondato a Bologna la catena di gelaterie artigianali RivaReno.

Ex manager di grandi aziende lui, ex giornalista della Bbc lei, hanno cambiato la loro vita quando hanno deciso di trasformare la loro passione per i gelati di una bottega bolognese, la Cremeria Funivia, in un progetto imprenditoriale di grande respiro. Nel 2004, coinvolgendo nella loro avventura anche i proprietari della loro gelateria preferita, hanno lanciato una rete di gelaterie in franchising che al momento conta venti punti vendita in Italia, ha aperto anche a Malta e in Australia (e presto in Spagna) e ha superato i 6 milioni di fatturato.

In un periodo in cui l’interesse per il gelato made in Italy cresce, come testimoniano i numeri della Fiera Sigep che si è chiusa il 21 gennaio (174 mila visitatori, +20% rispetto al 2014), e in cui paradossalmente mancano i gelatieri e i pasticceri qualificati (nel 2013, secondo la Fipe, il 13% delle assunzioni programmate non sono state effettuate e sono rimaste vacanti 600 posizioni per personale qualificato), la storia di RivaReno può essere considerata esemplare. La racconta a EconomyUp il suo co-fondatore Nicola Greco.

Come è nata l’idea di RivaReno?
È nata da una grande passione per il cibo made in Italy, e in particolare per il gelato, che condivido con mia moglie (Lynn Ya Ping, di origine sino-vietnamita, ndr). Io avevo esperienze nel settore e vendite e marketing di aziende come Fiat, Olivetti e Ducati, l’ultima società in cui ho lavorato. Lei era una giornalista della Bbc. A un certo punto, nel 2003, abbiamo accarezzato l’idea di portare il gelato italiano in giro per il mondo creando una nostra rete di vendita in franchising. Abbiamo lasciato le nostre rispettive occupazioni e ci siamo gettati in quest’avventura.

Da dove siete partiti?
Nel 2004 abbiamo chiesto al proprietario della nostra gelateria preferita, la Cremeria Funivia di Bologna (costruita nella funivia dismessa che portava a San Luca, uno dei più noti colli bolognesi, ndr): “Perché non ci vendi le tue ricette? Vorremmo farci tanti negozi, mantenendo questa come gelateria di riferimento”. Dalla Cremeria ci risposero che le ricette erano in vendita solo a una condizione: che i fondatori di Cremeria Funivia entrassero nella società. Così diventammo soci e fondammo RivaReno: io mi occupavo della parte organizzativa, mia moglie della comunicazione, i gelatieri della Cremeria badavano alle ricette e un quarto socio curava l’intelaiatura legale.

Quale doveva essere la peculiarità di RivaReno rispetto ai competitor?
Ci siamo posti l’obiettivo di fare un gelato intenso. Gli emiliani sono persone ad alta intensità. Se fanno auto, fanno Ferrari e Maserati. Se fanno moto, fanno la Ducati. Se fanno il gelato, lo fanno intenso. E poi abbiamo voluto contraddistinguerci dal punto di vista del design delle gelaterie, con un arredo essenziale, adatto per portare il nostro marchio in giro per il mondo.

Ce l’avete fatta?
Ci stiamo provando. Oltre ai venti punti vendita in Italia, abbiamo aperto a Malta e in Australia, a Sydney. E a breve sono previste aperture in Spagna. Anche dal punto di vista dei numeri, in questi ultimi anni, se si fa eccezione per 2013 e 2014, siamo sempre cresciuti. Il fatturato globale di franchising è arrivato a oltre 6 milioni di euro.

Cosa è successo negli ultimi due anni?
Il meteo ci ha penalizzati tantissimo. Nel 2014 c’è stata pioggia per tutta l’estate. Nel 2013 invece è saltata la primavera. La pioggia può dimezzare il fatturato di una giornata in una gelateria, se non peggio. Poi ha pesato anche la crisi. Com’è noto, la gente consuma meno. Se in parte siamo cresciuti, è grazie all’apertura dei nuovi punti vendita.

A cosa si deve la crescita continua dei ricavi?
Il nostro gelato ha ricevuto riconoscimenti e premi da più parti, da Trip Advisor a Slow Food. Viene riconosciuto come un prodotto di eccellenza, nonostante i tanti punti vendita. Siamo una delle dimostrazioni che si possono fare cose di qualità anche in una catena di gelaterie: basta impegnarsi. D’altronde, non è il numero di gelaterie che determina l’alta o bassa qualità. Anche un singolo può fare un gelato di bassa qualità se lesina sulle dosi e se sceglie materie prime non all’altezza.

Che impatto ha avuto una catena su Grom sul mercato del gelato in Italia?
Personalmente sono grato a Grom. Sono stati i primi in Italia ad aver fatto un discorso originale sul gelato, un ragionamento corretto sui prezzi: il gelato è un prodotto caro! E sono stati i primi a fare buon marketing sul gelato di qualità. Si ha sempre bisogno di un concorrente bravo e che ti fa venire delle idee.

Un’innovazione di Grom, se così possiamo definirla, è stata la riproposizione dei pozzetti. Vi siete ispirati a loro nella scelta?
I pozzetti, a mio parere, non sono mai passati del tutto di moda. Grom ci ha puntato per motivi di immagine, ovvero dimostrare di fare il gelato come una volta. Ma presumo che li abbia scelti soprattutto per una questione di qualità: il pozzetto è la maniera migliore per conservare il gelato. Ed è il motivo per cui l’abbiamo scelto anche noi. Anzi, nel nostro caso si scontra un po’ anche un po’ con il nostro design: è un elemento tradizionale in un ambiente moderno.

Si parla dell’introduzione di un marchio che identifichi, soprattutto all’estero, la qualità del gelato made in Italy e le gelaterie italiane. Sarebbe una misura utile a suo parere?
Anche se l’iniziativa ha sicuramente un fine nobile, io sono abbastanza contrario. Mi sembra un progetto che lascia il tempo che trova. In Italia ci sono già troppi enti certificatori ma l’unico vero certificato arriva dal palato del cliente. La gente non è stupida: sono i clienti che devono giudicare. Certificati del genere contribuiscono ad aumentare la burocrazia. Tra l’altro, può produrre anche il paradosso per cui certe cose certificate, per quanto rispettino tutti gli standard previsti, non siano buone. Per esempio, se il certificato mi impone una quantità minima di una certa materia prima e io mi attengo a quel limite sicuramente otterrò la certificazione. Ma magari, quel gusto merita una quantità molto più alta di materia prima per essere buono. Quindi, ripeto, lasciamo che gli unici a decidere siano i clienti.

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