LA BUONA ECONOMIA

Ecco la fabbrica che ha fatto il suo record durante la crisi

Officine Rigamonti, azienda della Valsesia produttrice di valvole per il trattamento acque, nel 2013 ha raggiunto il fatturato più alto dei suoi 60 anni di storia: 17,5 milioni di euro. Come ha fatto? Flessibilità, multiculturalità e bravura nel gestire il passaggio generazionale

Pubblicato il 14 Feb 2014

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Le Officine Rigamonti hanno più di 60 anni di storia. Eppure, paradosso vuole che il record di fatturato di questa azienda che produce valvole per il trattamento acque sia arrivato nel 2013, uno degli anni della Grande Crisi. Il massimo storico durante uno dei momenti più drammatici di sempre dell’economia italiana. “Abbiamo risentito come tutti delle difficoltà nel 2008”, racconta il direttore commerciale e marketing Andrea Rigamonti, 32 anni, figlio di uno dei due ad, Fausto. “Ma dal 2009 a oggi siamo cresciuti complessivamente del 58%. L’anno scorso il fatturato è aumentato del 22% e abbiamo chiuso a 17,5 milioni: il nostro record di sempre”.

Il risultato dell’azienda di Valduggia (Vercelli) – 60 dipendenti e almeno altrettanti Paesi in cui esporta accessori per caldaie – non è un colpo di fortuna ma il frutto di una particolare dote: la flessibilità. “Siamo stati bravi a interpretare le richieste dei mercati”, dice il giovane manager. “Un esempio? In Russia ci richiedevano un riduttore di pressione che il mondo intero utilizza a una temperatura massima di 80 gradi, mentre lì lo volevano a 130 gradi. In due mesi e mezzo abbiamo fatto fronte alla richiesta, e più velocemente rispetto alla concorrenza”. Con questo approccio basato sul cliente, soprattutto all’estero, Officine Rigamonti è riuscita a raggiungere una quota export del 75% e a espandersi, senza nessuno stabilimento oltre confine, in aree come Francia, Spagna, Medio Oriente, Cina e Nord Africa. Il prossimo obiettivo è consolidarsi in Russia e penetrare il mercato Usa.

Andrea Rigamonti, direttore commerciale e marketing di OR

Flessibilità significa anche spingere sulla multiculturalità per comprendere meglio i linguaggi di Paesi diversi dal nostro. Tra le persone che si occupano dell’area commerciale, sono stati assunti un giovane ucraino per gestire il mercato russo e dell’Europa orientale, una ragazza belga per trattare con l’Europa centro-settentrionale e ora si sta cercando una figura che faccia da tramite per il mercato arabo.

Certo, essere presenti sulla piazza dal 1950 e avere al proprio interno la filiera produttiva completa, dallo stampaggio allo stoccaggio fino alla vendita, è un punto di forza innegabile. Così come è un vantaggio trovarsi all’interno di un distretto, quello della Valsesia, che su rubinetti e valvolame ha costruito le sue fortune. “Avere tutto l’indotto a portata di mano è funzionale”, afferma Rigamonti. “In più, visto che le imprese del posto cominciano sul serio a mettersi insieme e a fare network, diventa più facile competere a livello internazionale e rimediare almeno in parte alle classiche debolezze dell’Italia in termini di tassazione e costo del lavoro”.

Tuttavia, la possibilità di produrre “a chilometro zero” e in sinergia con le altre compagnie del distretto non è sufficiente per giocare un ruolo da protagonista sui mercati. A questo bisogna aggiungere anche qualche mossa strategica fuori dagli schemi come il vendere prodotti all’estero che vengono commercializzati con le private label create da alcuni importatori. In altre parole, è possibile che una valvola realizzata da OR sia venduta con un marchio diverso: sull’etichetta è specificato che si tratta di un prodotto italiano di qualità, ma il brand è, per esempio, russo.

Uno dei macchinari dell'azienda

A questo punto, i puristi del made in Italy storceranno il naso: si può tutelare anche così l’italianità di una produzione? “Il nostro target è l’idraulico che installa le caldaie, che sa quanto i prodotti italiani per l’idraulica siano il top insieme a quelli tedeschi”, spiega il direttore marketing. “Se è l’impresa del suo Paese, con cui ha a che fare da anni, a vendergli il prodotto made in Italy, non cambia molto che sull’etichetta non ci sia scritto OR: l’italianità resta intatta”. La scelta, per quanto controversa, è da una parte redditizia e dall’altra obbligata. “Piaccia o no, è uno degli aspetti che consente di mantenere il lavoro in Italia”, sottolinea il direttore commerciale. “I grossi importatori che non vogliono avere concorrenza creano private label comunque, magari con prodotti cinesi. Sta alle Pmi di casa nostra capirlo e adeguarsi”.

Così come è audace la decisione di vendere in alcuni Paesi con marchi diversi, è sintomo di coraggio l’aver gestito con determinazione il passaggio generazionale. “Dopo alcuni scontri iniziali con mio padre, che ha 53 anni ed è ancora attivissimo, mi sono integrato perfettamente e ho dato un contributo allo sviluppo commerciale di OR”, afferma Andrea. “È una sinergia: ogni giorno ci scambiamo conoscenze. Ed è anche grazie a lui che ho capito che l’azienda è un’entità terza, a sé stante, che non deve essere considerata solo una fonte di denaro per la famiglia. Va gestita come qualcosa di diverso dal proprio portafoglio”.

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