IMPRENDITORIALITÀ

Covid e vaccini: la società del rischio zero è la fine dell’innovazione

Mentre altri Paesi accelerano la corsa verso il futuro l’Italia sta a guardare, selezionando classi dirigenti conservatrici e paurose. La paura (irrazionale) è anche alla base del rifiuto, da parte di alcuni, dei vaccini contro il Covid19. Ma il rischio zero non esiste. E comunque senza rischio non c’è innovazione

Pubblicato il 17 Mag 2021

Innovazione

La pandemia da Covid-19 ci ha permesso di gettare uno sguardo attento nel profondo del nostro cuore di tenebra e ha fatto affacciare fenomeni a lungo mantenuti sotto-traccia. Non mi riferisco alle fake news, tema che riteniamo tanto contemporaneo solo perché dimentichi che la storia delle dittature si è costruita con dicerie (evidentemente abbiamo scordato i “Protocolli dei Savi di Sion” o i gossip che facevano i pretoriani a Roma); mi riferisco invece al terrore dell’innovazione, a sua volta dovuto allo scetticismo nei confronti del sapere scientifico.

Ne avevamo avuto moltissime avvisaglie: i No vax, gli anti-OGM, i No 5G, i terrapiattisti, gruppi condivisi da tutto l’Occidente. Mentre avevamo ormai accettato i movimenti a favore del biologico, perché ritenuti meno dannosi, e perché, per i più cinici, si era capito il potenziale markettaro; avevamo ridotto la guardia rispetto all’omeopatia che è addirittura riconosciuta dal servizio sanitario pubblico in alcuni paesi (pochi, per fortuna). Insomma, di errori ed eccessi ne abbiamo visti parecchi, ma mai come con il Covid-19 abbiamo toccato con mano l’ignoranza dei laureati.

Nell’ultimo periodo l’attenzione si è concentrata sui vaccini, e ogni atteggiamento è stato improntato al parossismo: quotidiani che si auto-definiscono esempi di contrasto alle fake news hanno pubblicato notizie su ogni (possibile) effetto collaterale. I più hanno scoperto l’esistenza delle trombosi, che nel numero di poche centinaia all’anno erano finora sfuggite all’attenzione. Le istituzioni sovra-nazionali purtroppo hanno in parte alimentato la confusione, ma la cosa che sorprende di più è l’atteggiamento schizofrenico: da un lato si accetta come miracolosa qualunque soluzione capace di curare il Covid-19 (clorochina, plasma immunizzante, anticorpi monoclonali), dall’altro, non si accettano i vaccini per pochi episodi avversi. Tale comportamento richiede un po’ di analisi per essere compreso, motivo per cui ho deciso di scrivere questo articolo.

Che cos’è la scienza?

La scienza è vista a un tempo come male assoluto, quando con la chimica cerca di aumentare la produzione di cibo e, contemporaneamente, le si riconoscono attributi tipici della religione, come l’infallibilità (o vaccini 100% sicuri, o niente).

Nel complesso percorso di ricerca di soluzioni per contrastare la pandemia si sono sollevate, e tuttora si sollevano, voci ipercritiche. Incapaci di vedere l’enorme danno causato dal lockdown, milioni di persone si interrogano sulla sicurezza dei vaccini, pongono problemi tecnici, etici e legali per il c.d. “passaporto vaccinale” ma non sono in grado di riconoscere i medesimi problemi nelle autocertificazioni o nel coprifuoco.

Non si tratta di ignoranza e malafede o, almeno, non solo. Si tratta di una visione magica del sapere scientifico, perché prodotta nella pratica quotidiana, dove, effettivamente, tocchiamo con mano fenomeni sostanzialmente magici: l’accesso al sapere umano in pochi secondi, la possibilità di relazionarsi a distanza (con buona parte del globo terracqueo), di muoversi rapidamente, di spostare beni e denaro istantaneamente.

La magia non è comprensibile, e i più non sono preoccupati di capire, salvo per i temi che diventano di moda. E così, lo stesso impiegato di banca che non ha idea di come funzioni il GPS che lo guida al lavoro tutti i giorni, diventa esperto di vaccini e risposte immunitarie. L’avvocatessa che non si cura del funzionamento del motore a 4 tempi nella sua auto diventa sostenitrice della libertà di cure omeopatiche.

Purtroppo l’attitudine alla conoscenza scientifica non funziona a targhe alterne: non si può avere un atteggiamento magico nei confronti del computer e pretendere di comprendere come agisce un vaccino a mRNA. Né si può pensare che per rimediare alla propria ignoranza sia sufficiente chiedere aiuto a Internet: le spiegazioni ben fatte non si distinguono da quelle raffazzonate se non si è frequentato abbastanza il mondo della scienza.

In primo luogo, non si tratta semplicemente di nozioni accumulate nel tempo, ma di un modo di ragionare che fa ampio affidamento a strumenti statistici e probabilistici. La scienza è una pratica, una forma di sapere in costante evoluzione, non è un semplice ricettario. Occorre anche capire che una ipotesi si diffonde perché ha ricevuto parecchie conferme sperimentali, non perché è stata proposta da qualche “genio”; al contempo, l’apparente democrazia, che in realtà è la mancanza del principio di autorità, non significa che tutti possono dire tutto. La costruzione scientifica è un castello in cui le diverse discipline a volte si sostengono reciprocamente, altre volte non intendono capirsi. A chi guarda la vastità del sapere fisico, chimico, biologico, difficilmente viene da dire: ecco tre regolette per capire che cosa è scientifico e che cosa non lo è. Sui principi di demarcazione si sono schiantati alcuni dei più brillanti filosofi del ‘900.

La paura del rischio in una società che non si comprende più

Ho la netta sensazione che la maggioranza dei cittadini pretenda che la scienza dia loro certezze: non vogliono rischiare, perché sono abituati a non rischiare più. In effetti quasi nessuno oggi rischia di morire di fame, di sete, di perdersi, di congelare, di essere mangiato da animali feroci, di ammalarsi e morire (fino al Covid-19 ci eravamo dimenticati le malattie infettive, avendo l’AIDS diminuito la presa grazie a farmaci che sostanzialmente hanno stabilizzato l’HIV).

Non rischia queste cose, che i suoi avi rischiavano con discreta frequenza, perché qualcuno si è preso in carico di quei rischi per lui: l’agricoltore, il distributore e il supermercato si occupano di portare il cibo, i ristoratori, se serve, lo cucinano pure (e i rider lo portano a casa…). Prima i geografi, poi i satelliti, hanno operato per darci sempre una direzione precisa, e così via. Certamente questa mancanza di contatto diretto rende più difficile comprendere che cosa accade nel dietro le quinte. L’incomprensione porta a sospetto e a quella sensazione di paura e di esclusione che i complottisti cercano di esorcizzare ridando un proprio senso ai fenomeni.

Eppure la storia del progresso umano è una trasformazione dei rischi esterni in rischi interni, umani. Non è una diminuzione del rischio. Produrre cibo ha introdotto, per esempio, diversi nuovi rischi: l’inquinamento delle falde acquifere, l’eccesso di azoto, il consumo di suolo. Nel ‘900 la rivoluzione dei fertilizzanti azotati ha contribuito ad aumentare la popolazione mondiale di quasi 6 volte. Fertilizzanti che possono esplodere, creando catastrofi come quella di Texas City o di Beirut, o creare le mucillagini. L’analisi scientifica dei nuovi rischi ci consente di decidere come gestirli: in alcuni casi eliminandoli (è il caso dei clorofluorocarburi), in altri ponendo delle soglie (% di pesticidi nel cibo) o aumentando i controlli e i presidi di sicurezza.

Ma, da sola, la scienza non ha il potere di ripulire il mondo da tutti i rischi che ha introdotto, perché scienza e tecnologia generano innovazioni che poi vengono sfruttate a livello commerciale e, pertanto, sottoposte a un altro modo di ragionare. La valutazione dei rischi di un impianto di raffinazione di petrolio mira a ridurre gli incidenti perché così si riducono le perdite; ma potrebbe avere un approccio “morbido” ai rischi di inquinamento ambientale, che non hanno impatti economici immediati.

Non si fa scienza senza soldi: conoscenza e denaro

Poiché viviamo in economie per lo più, e in maniera imperfetta, votate al libero mercato, siamo sottoposti buona parte del tempo a valutazioni di natura economica. Prendiamo come esempio alcune tecnologie che sono sorte nel secolo scorso: l’aviazione civile, le automobili, le centrali nucleari.

L’aviazione civile nei primi anni di sviluppo ha visto accadere incidenti devastanti dovuti a errori di progettazione degli aerei, a manutenzioni al risparmio, a difficoltà di orientamento.

Le prime auto non avevano sostanzialmente dispositivi di sicurezza e ogni incidente poteva essere fatale; se Henry Ford avesse dovuto sottostare all’associazione delle vittime della strada, non avrebbe mai iniziato a produrre e vendere auto.

Anche le centrali nucleari hanno mostrato diversi rischi, diventati manifesti negli incidenti di Chernobyl e Fukushima, ma la necessità di energia elettrica ha spinto ad assumerseli.

Se avessimo applicato valutazioni di rischio unicamente di natura ingegneristica, mirando a un rischio quasi zero, buona parte di queste invenzioni non si sarebbe mai diffusa. Le prime auto non avevano abbastanza forza motrice per riempirsi di protezioni passive; i continui ritardi nella produzione di centrali nucleari di III generazione, più sicure, e la grande crescita dei loro costi, sono noti a chiunque abbia conoscenza del settore.

Viviamo con la costante preoccupazione di mangiare cibo adulterato e inquinato, di subire furti e frodi che colpiscono i pagamenti digitali, riteniamo di vivere in un’epoca pericolosa.

Ma l’adulterazione del cibo è una pratica sempre esistita. In passato si faceva in modi più grezzi, mescolando gesso e farina, aggiungendo argilla alle spezie per aumentare il peso, zuccherando i vini. Le frodi che oggi colpiscono le carte di credito in passato erano banconote false, monete “tosate”.

Non viviamo un’epoca pericolosa, tutte le statistiche anzi sembrano andare in un’altra direzione, ma abbiamo una costante sensazione di impotenza e frustrazione, che scarichiamo in ogni occasione utile. Negli anni ce la siamo presa con l’Alta Velocità ferroviaria, con i rigassificatori, gli oleodotti e il mais OGM. Un modo per riprendere possesso di una realtà che non capiamo più, troppo complessa per molti aspetti.

Senza rischio non c’è innovazione

Qual è l’effetto di questo atteggiamento generalizzato? Che si perde capacità di competere sui mercati. Che paesi più razionali, o spregiudicati, accelerano la corsa verso il futuro mentre noi rimaniamo a guardare. Stiamo selezionando da almeno trent’anni classi dirigenti conservatrici e paurose, probabilmente anche perché la nostra demografia è squilibrata verso gli anziani, di base più ansiosi, che votano Brexit perché temono gli immigrati polacchi. Di conseguenza i nostri dirigenti lasciano pilatescamente decidere i cittadini su questioni centrali a livello strategico come il nucleare, le piattaforme petrolifere, la gestione dell’acqua. Usiamo il “principio di precauzione” come scusa per non doverci assumere responsabilità, cavalchiamo la protesta per finire in Parlamento o in municipio – comitati contro i termovalorizzatori sono una strada abbastanza sicura per diventare politici.

Prima ancora di ragionare sulla tecnologia per il Digital Green Certificate abbiamo le valutazioni del Garante della privacy e, ne sono sicuro, fioccheranno i ricorsi delle associazioni dei consumatori, appena diventerà operativo. In Italia abbiamo contrastato gli OGM e il nucleare, con una rilevante perdita sulla capacità di competere in questi settori.

Israele, paese costretto a innovare per sopravvivere, ha guidato le campagne di vaccinazione e l’introduzione di strumenti digitali per consentire la ripresa di una vita più normale. Non è un caso. Gli inglesi hanno accelerato la campagna vaccinale posticipando la seconda dose e consentendo a una platea di professionisti sanitari di vaccinare: sicuramente hanno dovuto gestire momenti delicati a causa della variante più contagiosa, ma noi, chiusi in casa da un anno, negozi e ristoranti falliti, disoccupazione pronta a esplodere, ancora non abbiamo chiaro quanto stiamo perdendo di giorno in giorno?

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Andrea Danielli
Andrea Danielli

Vengo dal mondo antiriciclaggio (Banca d'Italia), sono imprenditore in una regtech (Mopso) e mi occupo del passaporto digitale perché è tecnologicamente isomorfo al nostro progetto Amlet, per adeguata verifica della clientela bancaria. Sono ex presidente di Copernicani e autore per vari blog

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