Scenari economici

Tassi, meglio lasciarli come sono (o alzarli di poco)

La crescita è in mano ai governi non alle banche centrali. Eppure la decisione che la FED comunicherà il 17 settembre alle 20:00 ora italiana è molto attesa. Perché potrebbe segnare una svolta. Ne parleremo insieme al MIP

Pubblicato il 10 Set 2015

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Dunque, ci siamo quasi: nella sua riunione del 16 e 17 settembre il Federal Open Market Committee potrebbe decidere di aumentare il tasso di sconto Usa per la prima volta dal 29 giugno 2006. Lo farà?

Ne parliamo in Mip la sera di giovedì 17 settembre con Donatella Principe, Head of Institutional Business di Schroders (Italia) SIM e Paolo Mauri Brusa, Portfolio Manager di GAM SGR (Italia) (per registrarsi cliccare qui). Da circa due anni la Banca Centrale statunitense, la FED, ha cominciato a ventilare l’ipotesi che l’economia reale si è ormai ripresa abbastanza e che le condizioni sono favorevoli ad un ‘ritorno alla normalità’, vale a dire un ambiente in cui i tassi di sconto sono utilizzabili come strumenti di politica monetaria sia verso l’alto che verso il basso, se e quando del caso. Ciò, si noti, senza che il FOMC abbia dato un giudizio ancora veramente ottimistico (pessimistico) sulla crescita dei salari e in assenza di segnali inflazionistici. Ma il FOMC voterà per una aumento del tasso di sconto?

Perché è un quesito importante

È importante perché sono nove anni che non lo fa, e quindi abbiamo perso memoria (non tutti, non tutti nella stessa misura) di quali ne potrebbero essere le implicazioni. Si, certo, alcuni diranno: io no, io lo so che un aumento del tasso di sconto renderà più caro il denaro per le banche e, di conseguenze, per le famiglie e le imprese, e che dunque causerà una recessione. Calma. Chi ha mai visto un aumento del tasso di sconto da un valore prossimo allo zero da sette anni, dopo espansioni del bilancio della FED inimmaginabili fino a pochi anni fa, nel bel mezzo di espansioni monetarie colossali da parte di BCE e BoJ? E poi: quella appena enunciata è una teoria, non un fatto. E poi: anche ammesso che la teoria sia corretta, chi dice che una sua realizzazione sia politicamente auspicabile? Insomma, calma.

Le posizioni in campo

Ci è stato spiegato quasi un secolo fa che nel predire l’esito di un concorso (di bellezza, nella versione originale) non è importante decidere dove stia il bello, ma piuttosto dove lo veda (il bello) la giuria. Ecco, lo sforzo da fare quando si vuol fare una previsione sta proprio nel distinguere tra quello che si vorrebbe avvenisse e quello che i giurati potrebbero volere invece. I giurati, in questo caso, sono i membri (votanti) del Federal Open Market Committee. E molti di questi personaggi parlano poco, e quelli che parlano lo fanno spesso in maniera ambigua, e poi non sai se sono ambigui per scelta, per accidente, o per tua stupidità…

Certo ci sono eccezioni. Ad esempio, subito prima della pubblicazione dei dati sui nuovi posti di lavoro creati in agosto (+173000, tasso di disoccupazione sceso al 5,1%) Jeffrey Lacker, presidente della Fed di Richmond e membro del FOMC con diritto di voto, ha dichiarato che è giunto il momento di rompere gli indugi e procedere al rialzo del tasso di sconto già il 16-17 settembre. D’altro canto pochi giorni prima Eric Rosengren, presidente della Fed di Boston e membro del FOMC senza diritto di voto, sosteneva che la ripresa economica negli Usa non è ancora sufficientemente forte e che un aumento dei tassi potrebbe indebolirla ulteriormente o, al limite, bloccarla. Si noti che Lacker e Rosengren ragionano allo stesso identico modo, nel senso che entrambi guardano avanti: Lacker pensa che il policy maker debba agire subito, prima che l’economia arrivi troppo vicino alla piena occupazione e cominci a generare inflazione; Rosengren pensa che la piena occupazione sia ancora lontana, e che dunque sia presto per adottare manovre restrittive.

Ovviamente, oltre che ai membri (estroversi) del FOMC si può poi prestare ascolto ad economisti, commentatori, traders, speculatori e tutti coloro che si guadagnano da vivere raccontando come la pensano. La gran parte dei quali, purtroppo, ha difficoltà a tenere separato ciò che spera avverrà da ciò che pensa avverrà. E da ciò che probabilmente avverrà.

La strategia migliore per parlare del problema è quindi, probabilmente, distinguere le parti in campo sulla base di due grandi aggregati, cioè i pro e contro, e dire poi in una riga con chi siamo d’accordo.

Posizione (approssimativamente) keynesiana

Nonostante esistano tante versioni di questa scuola quante ne possono emergere in ottant’anni dalla sua formulazione originaria, un ‘keynesiano’ è in essenza qualcuno che crede che l’economia di mercato non è in grado di raggiungere lo stato di piena occupazione senza un sostegno statale alla domanda aggregata. Se si guarda al periodo post-2007 questa è proprio la proposta di politica economica dei keynesiani per uscire dalla crisi: molta spesa finanziata in disavanzo, politica monetaria accomodante, cioè espansiva. A guardare i risultati dopo tanti anni, si può serenamente dire che dalla crisi è uscito chi ha adottato politiche di aumento della spesa pubblica (gli Stati Uniti); l’adozione di politiche monetare espansive, tradizionali e non, non ha probabilmente danneggiato l’economia reale, tutt’altro, ma sono state ancillari rispetto alle politiche di spesa.

Consegue da questa posizione di principio che i keynesiani consigliano che il 16-17 settembre il FOMC decida di mantenere il tasso di sconto inalterato. Inflazione, dicono I keynesiani, non se ne vede da anni, è sbagliato ragionare come fossimo ancora negli anni ’80. Dopo anni di tasso di sconto a zero, quantitative easing in tre tornate successive sempre più aggressive, un bilancio della FED che è quattro volte quello che era nel 2006, il tasso di inflazione è ancora drammaticamente sotto l’obiettivo del 2% cui la FED deve attenersi (come limite superiore). A chi dice loro che il problema non è l’inflazione osservata ma quella attesa, i keynesiani rispondono che sul mercato del lavoro pre-condizioni per l’emergere di punte inflazionistiche non ve ne sono perché, pur se è vero che un tasso di disoccupazione al 5,1% comincia ad essere piacevolmente (per un keynesiano) basso, la dinamica del costo del lavoro non è tale da far pensare ad una prossima impennata dell’inflazione da costi. In sintesi, un mercato del lavoro che approssima gradualmente la piena occupazione in assenza di aumento del costo del lavoro non indica la necessità di aumentare il tasso di sconto, e quindi I tassi di interesse alle famiglie e alle imprese, per raffreddarne la voglia di spendere. Si veda, per tutti, Paul Krugman, The Fed Should Remember the ‘90s, del 4 settembre scorso. Ma anche l’analisi di Joseph Stiglitz o la posizione delle stesso Eric Rosengren citato sopra.

Posizione (approssimativamente) liberale

È liberale chi crede che il mercato, lasciato libero a se stesso, genererebbe la piena occupazione, e che se questa non si realizza è perché lo Stato si intromette nella vita economica della società e ne distorce il funzionamento ad esempio mediante la spesa pubblica e, in generale, mediante politiche di spesa e prelievo. I liberali pensano che la FED abbia ridotto artificialmente i tassi di interesse negli Stati uniti, e che questo sia un danno potenzialmente enorme per l’economia del paese. È bene, essi sostengono, che si proceda il prima possibile ad un aumento del tasso di sconto per riportare il funzionamento dell’economia nel suo stato di normalità, da intendersi in particolare come uno stato in cui i tassi di interesse di policy sono significativamente diversi da zero. Peraltro il momento è buono, poiché un tasso di disoccupazione del 5,1% è spiacevolmente (per un liberale) vicino alla piena occupazione, un fatto che lascia prevedere una fiammata di inflazione se non si procede al più presto a mettere sotto controllo il livello dell’attività produttiva. E, infine, i liberali chiedono un aumento del tasso di sconto perché le varie tornate di quantitative easing non hanno affatto contribuito alla ripresa dell’economia reale, ma hanno invece contribuito, e molto, al formarsi di una bolla sui mercati finanziari il cui scoppio va controllato appunto mediante l’aumento dei tassi.

Allora, cosa farà la FED, alzerà o non alzerà?

La risposta ovvia? Non lo so. Il 28 agosto Stanley Fischer, Professore Emerito dell’MIT e attuale vicepresidente della FED, ha detto che era troppo presto per prendere posizione. Vero, infatti non erano ancora stati pubblicati i dati sui nuovi posti di lavoro, e poi occorre aspettare i dati sull’inflazione, le previsioni dei direttori degli acquisti, le mosse di Draghi, le previsioni meteorologiche (scherzo, ma non sulle previsioni meteo: non c’è forse stato chi ci voleva dar da intendere che qualche centimetro di neve fu la causa della bassissima crescita del Pil Usa dello scorso inverno!?) …. Balle, Fisher dice così perché è una persona seria e un economista bravo, e sa che il vicepresidente della Fed deve tacere. Non è mica un banale presidente di Fed regionale, lui, come Lacker e Rosengren!

E Lei, Sdogati, cosa farebbe?

Quello che son venuto predicando dal 2007: meglio che lo lascino immutato, e se proprio vogliono aumentarlo, meglio poco che tanto. Perché il motore politico della crescita è in mano ai governi, non alle banche centrali.

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