Innovazione sociale
Meritofobia, non basta avere 30 anni per essere diversi
Il vero problema dell’Italia non è disconoscere il merito ma ostacolarlo. È la denuncia di un libro, “Merito(fobia)”. L’autrice spiega perché succede questo e per quale motivo non basta essere giovani (o donne) per portare valori diversi. Le logiche dell’appartenenza hanno la meglio su tutto…
di Elita Schillaci
Pubblicato il 27 Giu 2014

Mentre la filiera del demerito prende piede indisturbata, c’è qualcuno che si sbraccia per comprendere con quali e quanti strumenti il merito possa essere arrestato. Al contrario di ciò che pensa realmente, dichiara apertamente di volere onorare il merito, la competenza e la capacità. E più sono pubbliche e convinte queste dichiarazioni, più il bluff sembra funzionare. La comunità non giudica più, forse ha rinunciato da tempo delusa e amareggiata ai sani meccanismi del controllo sociale.
Senza sentimenti né risentimenti, afferma qualcuno. E’ facile convincersi ed autoconvincersi che i principi non servano, che la coerenza sia solo rigidità, che l’etica stia nel numero di volte che ne pronunci la parola e non nel numero di volte che ne tradisci il valore. Basta solo onorare apparenza e forma (a volte neanche più quella) per diventare il profeta del merito, anche se carriera e scelte così meritevoli non sembrano essere.
Oggi il tema del merito improvvisamente è balzato agli onori della cronaca. I talk show televisivi, sempre più show che talk, abbondano di qualunquisti che ipocritamente sottolineano la loro aderenza ai principi del merito e del talento. «Bisogna aiutare i giovani a non fuggire dai nostri territori! I migliori cervelli se ne vanno!! Dobbiamo aiutare la performance!!! Basta con la gerontocrazia!!!!».
Strilloni e portaborse hanno imparato che basta impugnare la falce del merito, per picchiare poi con il martello della meritofobia.
Inesorabilmente, e senza via di scampo, sempre più, giorno dopo giorno, ciò che vale nel nostro Paese è l’appartenenza. L’appartenenza al partito, al club service, alla classe sociale, alla massoneria, alle associazioni di categoria, al gruppo modaiolo, alla nicchia o al branco. E se appartieni da più tempo, da moltissimo tempo, a qualcosa o a qualcuno, e se aderisci trasversalmente a tante, varie appartenenze la tua potenza è smisurata, il tuo successo è assicurato.
Giovani e donne: anche questa è un’equazione che sembra andar di moda. Ma il merito, che spesso veramente e con fatica viaggia in scooter e indossa i tacchi a spillo, viene utilizzato o manovrato da chi i giochi del potere li conosce bene. E molti giovani pensano che basti un curriculum pieno zeppo di certificati, corsi e seminari (ormai s’inserisce anche quello organizzato dalla parrocchia), e una carta d’identità fresca di stampa per essere convinti di poter arrampicarsi e inerpicarsi lungo il potere. Fatto di ammiccamenti al capo, chilometri di servilismo e sgomitate aggressive e tradimentose.
Non basta avere trent’anni, un sorriso smagliante e un tweettio veloce e continuo. E poi essere portatori di valori, fama di potere e metodi mafiosi da fare impallidire per ingenuità anche il forever e geniale young Macchiavelli
Poi per le donne è tutto un gran movimento. «Voi italiani siete i peggiori d’Europa» tuona la Lagarde, efficace e mirabile sintesi di competenza, tenacia e classe femminile. L’Italia ha da sempre rinunciato al talento femminile: e quindi ad una fetta consistente del suo Pil. Decenni di statistiche, womeneconomic e battaglie sul campo per dimostrare che la nostra creatività è una risorsa, la fidelizzazione tipica del genere una garanzia e la flessibilità cerebrale una grande opportunità per il futuro. «Dobbiamo cercare una donna per questa posiszione. Funziona di più. Se poi è carina ancora meglio. Purchè sia ubbidiente. E non rompa. E si adatti a ciò che è stato deciso».
Non c’è, ahinoi, in tutto questo valutazione del merito, ma solo opportunistico utilizzo del genere e della presunta parità, oggi tormentone ereditato dal Sessantotto. Di cui nessuno è realmente convinto. Neanche le donne, che sono spessole peggiori nemiche di se stesse. Non perché si combattono tra loro (come s’intende far credere), ma perché si deprimono, e non hanno più voglia, né forza, di combattere per i loro sogni.
* Elita Schillaci è docente di Imprenditorialità, Nuove imprese e Business planning all’Università di Catania