L'ANALISI

Da costruttori a mobility provider: 7 domande sulla trasformazione dell’industria dell’auto

La trasformazione dell’industria dell’auto in fornitrice di servizi di mobilità è cominciata. Sarà una rivoluzione in grado di scompaginare il mercato. I produttori hanno di fronte sfide decisive, dalla relazione con i concessionari a quella con i clienti, dai volumi di produzione alle partnership da sviluppare.

Pubblicato il 17 Nov 2020

Photo by A. L. on Unsplash

Trasformazione dell’industria dell’auto, lavori in corso. Sembra quasi che si siano messi tutti d’accordo: i principali OEM (Original Equipment Manufacturer, i costruttori) del settore automobilistico stanno annunciando, o hanno già enfaticamente presentato, la loro transizione a “mobility provider”, con l’aggiunta di qualche aggettivo di rinforzo, come ad esempio ha fatto Hyundai Motor al CES 2020 presentando la sua visione di Smart Mobility.

La trasformazione dell’industria dell’auto: da produttori a mobility provider

Questa mossa parte da lontano: tutto il mondo dei servizi finanziari, considerati accessori rispetto alla commercializzazione delle autovetture, ha da tempo capito l’importanza di trattenere il cliente in portafoglio con una offerta di lungo periodo, e tutti i principali OEM hanno negli anni creato la loro società per i servizi finanziari.

Si pensi, ad esempio, ai contratti di leasing che nel tempo hanno evoluto la loro formula classica (anticipo, “n” rate, maxi rata finale per acquisire la proprietà del mezzo) verso un modello in cui al cliente non viene trasferita la proprietà del veicolo, ma la maxi rata finale coincide con la ripartenza di un nuovo contratto con una nuova automobile. Oppure alle formule di full-leasing in cui il contratto include i tagliandi, cambio gomme e assicurazione. Risultato? Cliente fidelizzato al brand (o “intrappolato”, a seconda dei punti di vista), instaurazione di un rapporto di lungo periodo, costi di uscita mediamente alti nel caso in cui si voglia optare per un brand concorrente.

Quello che era un tempo l’acquisto in proprietà dell’automobile si va trasformando in un puro servizio di mobilità all-inclusive in cui il cliente deve solo guidare e pagare i costi variabili (carburante, parcheggi, lavaggi, ecc). Inoltre, come tutte le pratiche eccellenti del marketing insegnano, la segmentazione del mercato è avvenuta a cominciare dall’alto per spostarsi, in un secondo momento, verso il basso: prima si sviluppa il mercato aziendale (cliente business), e successivamente, ed è la novità degli ultimi anni, si aggredisce il segmento ben più vasto dei privati (cliente consumer).

La trasformazione dell’industria dell’auto e la Netflix Economy

La trasformazione in atto nell’industria dell’auto è l’inizio di una rivoluzione, potenzialmente in grado di scompaginare le carte nel mercato, perché non è detto che il rapporto con il cliente rimanga ad uso esclusivo degli OEM. Questi ultimi si sono attrezzati potenziando le loro società di servizi finanziari, ma in linea di principio anche altri operatori, non legati ad un particolare brand, possono dotarsi di offerte similari. Si pensi ad esempio alle società di noleggio e/o ai servizi di car-sharing nei contesti metropolitani. Ma anche i giganti del digitale, minaccia onnipresente in tutti i settori, potrebbero valutare un loro ruolo in questo mercato.

Con la trasformazione dell’industria dell’auto si va disegnando una vera e propria “Netflix economy”, in cui l’entità della rata mensile configura un pacchetto di servizi di mobilità, più o meno esteso in funzione dei bisogni del cliente, e con mille possibili personalizzazioni. La corsa all’oro è la conquista dei dati del cliente: avere in portafoglio quest’ultimo è troppo importante per gli OEM che rischierebbero di rimanere relegati a partner / fornitori di altri operatori di servizio se non si adegueranno a quello che si definisce anche la “servitization” dell’industria.

Gli effetti della trasformazione dell’industria auto sui costruttori

La trasformazione dell’industria dell’auto per gli OEM  propone una nuova stagione di cambiamenti. Vediamo i principali.

1. Che ne sarà del rapporto con i concessionari?

La potente rete dei dealer sul territorio è indispensabile per i servizi di manutenzione e assistenza tecnica post vendita, e su questo non si discute, almeno nel breve termine. Ma per essere un vero mobility service provider, l’OEM dovrà prendere in carico il cliente senza intermediazioni, e possedere tutti i dati di profilazione fin dalle fasi di pre-vendita. Emergono, in Europa, i primi tentativi di vendita online del veicolo; un mercato che in Cina, ad esempio, conosce già tassi di sviluppo sostenuti. Maserati, ad esempio, ha pubblicamente annunciato che al lancio, nella primavera del 2016, del Suv Levante in Cina, in 18 secondi raccolse i primi 100 ordini online, grazie all’accordo con la piattaforma di Alibaba. Misurare il consumo del servizio, ovvero quali sono gli usi che fa il cliente del mezzo, anche in tempo reale, risulterà essenziale per poter offrire iniziative di up-selling. In generale, possedere e utilizzare i dati del cliente diventa una strada inevitabile per fare vera fidelizzazione al brand. È ragionevole aspettarsi, per il prossimo futuro, un’importante assunzione di nuovi profili professionali, come ad esempio i data scientist, che daranno la linfa vitale per i nuovi servizi.

2. Come verrà gestito il cliente?

Per definizione, optare per un modello di business centrato sui servizi comporta una modifica organizzativa, ovvero dotarsi di strutture di customer operations che siano in grado di fornire assistenza. Call-contact center, chat bots, assistenti virtuali, staff professionalmente preparato: tutte operazioni costose da indirizzare in lingue diverse per tutti i mercati geografici serviti. Come per altri settori, è ragionevole aspettarsi una crescita degli organici in queste funzioni di assistenza post-vendita, in grado di risolvere il problema e/o di indirizzare il cliente ai servizi sul territorio.

3. Come verrà segmentato il parco clienti?

Da tempo i clienti che acquistano auto stanno diventando in Europa più anziani: il dato medio per i principali brand è ampiamente al di sopra dei 40 anni. Quelli della giovane generazione sono più difficili da convincere, visto la loro preferenza per i servizi condivisi o sistemi di mobilità mista e alternativi. I giganti OEM hanno quasi tutti una strategia multi brand, in grado di spaziare da un’offerta per servizi di base, con vetture di segmento A, B, C, e a salire fino a quella parte dell’offerta più esclusiva per veicoli più grandi, più costosi o a supercar di lusso. Si pensi ad esempio a Volkswagen e FCA.

Sulla carta, si tratta di una grande opportunità per poter comporre un‘offerta bundle di servizi in funzione del bisogno del cliente. Ad esempio, quest’ultimo potrebbe avere una utilitaria di piccola taglia, magari presa da un parco auto in condivisione, per gli spostamenti quotidiani in città dal lunedì al venerdì, un Suv per le escursioni nel weekend, e magari una coupè sportiva per il sabato sera. Le combinazioni sono infinite e i limiti sono la creatività e la fattibilità di budget.

Vedremo se la competizione assumerà queste forme estreme, e dopo quanto tempo. Certamente i confini potranno allargarsi a rapporti di partnership con operatori del car sharing nelle aree urbane, e ad altri ancora, ivi incluso la mobilità pubblica come reti di trasporto metropolitano e / o operatori ferroviari regionali.

4. Quale mix per la mobilità elettrica?

Chi ha mai detto che gli OEM debbano solo integrarsi verticalmente a valle con i servizi finanziari di leasing e noleggio per diventare un operatore di servizi di mobilità? Avere una flotta di FEV (Full Electric Vehicle), obbligo richiesto per l’adeguamento alle normative anti inquinamento, vuol dire anche incentivare la diffusione di infrastrutture di ricarica sul territorio, se non diventare operatore attivo in questo business. Tesla insegna con la sua rete di super charger.

Che cosa faranno gli altri OEM? E perché non escludere l’ingresso nel più tradizionale business della distribuzione di carburanti, che comunque starà in piedi a lungo per soddisfare il bisogno di un parco veicoli importante, offrendo ai clienti in smart mobility un pacchetto di litri di gasolio o benzina incluso nella rata mensile, se prelevato da una propria rete (o una rete partner)?

5. Quali sono le conseguenze di un veicolo perennemente connesso alla rete?

Gli impatti possono essere devastanti per il modello organizzativo degli OEM. Nella ipotesi di non lasciare il business delle auto connesse ai giganti del digitale, gli OEM che mettono i propri veicoli in rete per la mobilità smart, e che vogliano avere il controllo dei dati raccolti, si dovranno aspettare uno tsunami di informazioni prodotte su base giornaliera.

Si può arrivare a centinaia di giga-byte al giorno per veicolo: non solo dati di localizzazione, ma anche di uso della piattaforma di infotainment, di consumo di parti soggette ad usura, di registrazioni video delle telecamere di bordo, di protezione del veicolo da intrusioni, di informazioni del traffico dal radar dei sistemi ADAS, e molto altro ancora. Le nuove fonti di energia, come mise in risalto la famosa copertina dell’Economist del 6 maggio 2017, non saranno più quelle fossili ma quelle digitali.

Tutti questi dati vanno raccolti, trasmessi dal veicolo ad un server, archiviati, elaborati per stabilire quali servizi ulteriori si potranno offrire. Un veicolo connesso è una fonte d’oro per chiunque sappia gestire questa massa di informazioni, oppure è una fonte di problemi nella misura in cui produce troppi dati al giorno che non sappiamo elaborare.

6. Quali saranno i volumi di produzione?

Se si diventa mobility provider e se si ipotizza che questo comporti una quota crescente di veicoli condivisi da più clienti, la domanda fondamentale è se i volumi attuali – circa 100 milioni di auto all’anno di capacità produttiva a livello mondiale – saranno sostenibili nel futuro. Non è un’equazione da poco, visto i livelli occupazionali, diretti e indiretti, che il settore ha raggiunto con volumi attuali. In più, con un tasso di utilizzo in Europa di un veicolo pari a 10,8 anni (Acea, 2020), la sfida è lo svecchiamento del parco.

La sfida è diventare fornitore di servizi a parità di volumi. Un veicolo in car sharing ha un tasso di utilizzo maggiore di un veicolo di proprietà, ma il numero di veicoli condivisi soddisfa un numero di clienti che non compreranno più autovetture. Più car sharing, meno auto vendute. Servizi di car sharing più smart, potrebbero attrarre più clienti, e tra questi anche quelli che dismetteranno il loro mezzo anziano in cambio di una vettura di ultima generazione. Quale sarà l’effetto sul numero di auto prodotte e vendute dei clienti che dismetteranno il loro parco e compreranno servizi di car sharing? E quanti saranno i clienti delle nuove generazioni che si faranno persuadere da questi servizi di mobilità?

7. Quali saranno le partnership da sviluppare nel futuro?

Le alternative estreme sono due: make or buy. Nel primo caso gli OEM, e questa sembra una tendenza in atto, si dotano, usando il loro brand, di società operative in grado di offrire il portafoglio servizi end to end. Vedremo la loro presenza nel mondo assicurativo, in quello dei sistemi di infotainment e di elettronica di bordo, dei carburanti, della gestione delle informazioni sul traffico. Nel secondo caso, gli OEM del futuro saranno un hub centrale con una serie di raggi di collegamento con operatori e partner specializzati, ma solo se questi ultimi concederanno all’hub centrale il possesso del contatto e della relazione con il cliente.

Nel passaggio da produttore d’auto a mobility provider, nulla sarà come prima. La rivoluzione è iniziata per un settore che ha enormi responsabilità sociali e che ha un impatto importante (anche se non esclusivo) sui livelli di emissioni di CO2. Far quadrare tutte queste sfide nella logica della sostenibilità aggiunge ulteriore complessità agli OEM.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Ferdinando Pennarola
Ferdinando Pennarola

Professore di Organizzazione e Sistemi Informativi all’Università Bocconi di Milano e direttore del Global Executive MBA (GEMBA) della SDA Bocconi School of Management. Si occupa di change management e di innovazione nel campo delle tecnologie informatiche e della rete.

Articoli correlati

Articolo 1 di 4