L’idea di open innovation introdotta da Henry Chesbrough vent’anni fa ha rivoluzionato il modo in cui le imprese concepiscono la conoscenza. Oggi, secondo Linus Dahlander, professore presso la European School of Management and Technology (ESMT Berlin) e autore di numerosi studi su crowdsourcing, comunità e innovazione aperta, ci troviamo di fronte a un’ulteriore trasformazione: l’impatto dell’intelligenza artificiale (AI) sulle pratiche di innovazione collaborativa.
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Chi è Linus Dahlander
Nato in Svezia il 20 giugno 1979, Linus Dahlander è professore di Innovation Management alla ESMT Berlin, dove ricopre la Lufthansa Group Chair in Innovation; tra il 2019 e il 2022 è stato anche Director of Research dell’ateneo. I suoi studi indagano come nascono e si diffondono le idee attraverso reti, comunità e pratiche di open innovation e crowdsourcing, con pubblicazioni su riviste come Academy of Management Journal e Research Policy. Nel 2022 ha ricevuto il Jan Söderberg Family Prize in Economics and Management della Lund University School of Economics and Management, riconoscimento assegnato a studiosi under 50 per contributi rilevanti a imprenditorialità e innovazione. Ha conseguito il PhD in Technology Management and Economics alla Chalmers University of Technology e ha maturato esperienze accademiche internazionali prima di entrare in ESMT.
In un suo intervento dedicato al paper pubblicato sul California Management Review nel 2024 “Open Innovation in the Age of Artificial Intelligence”, scritto da Dahlander insieme a Chesbrough, Marcus Holgersson e Marcel Bogers, Dahlander analizza come l’AI stia cambiando i flussi di conoscenza tra persone, organizzazioni e reti, e come le tecnologie emergenti non si limitino a supportare l’innovazione, ma ne ridefiniscano le regole stesse.
L’evoluzione dell’open innovation verso l’intelligenza artificiale
L’open innovation, nella sua definizione originaria, si fondava sul principio di apertura dei confini organizzativi per permettere alle idee di fluire liberamente dentro e fuori l’impresa. Per anni, questo paradigma si è concretizzato attraverso collaborazioni con università, startup, fornitori o clienti, e con la gestione condivisa della proprietà intellettuale.
Secondo Dahlander, “il concetto di open innovation riguardava due dimensioni: portare idee esterne all’interno dell’organizzazione e, allo stesso tempo, inviare idee interne al mondo esterno”. Tuttavia, con l’arrivo dell’AI, questi confini si stanno “sfumando ancora di più”, e le modalità con cui le organizzazioni condividono, collaborano e innovano stanno cambiando rapidamente.
L’AI, afferma il ricercatore, non rappresenta semplicemente una fase dell’evoluzione tecnologica, ma “ha il potenziale per cambiare fondamentalmente le regole del gioco”. L’effetto combinato di big data, algoritmi e piattaforme collaborative porta alla nascita di modelli ibridi in cui la creatività umana e la potenza di calcolo si intrecciano, generando una nuova forma di innovazione aumentata.
Tre lenti per osservare la trasformazione: miglioramento, abilitazione e sostituzione
Dahlander propone di leggere l’impatto dell’AI sull’open innovation attraverso tre prospettive: miglioramento (enhancement), abilitazione (enabling) e sostituzione (replacement).
Nella prima prospettiva, l’AI agisce come amplificatore delle capacità umane. Processi che prima richiedevano tempi lunghi e risorse specializzate — come l’analisi di feedback dei clienti, post sui social media o database di brevetti — oggi possono essere automatizzati e scalati. Dahlander cita l’esempio di LexisNexis, che utilizza sistemi di AI per analizzare dati brevettuali e identificare opportunità di innovazione più rapidamente di quanto possa fare un team di analisti. “L’AI può setacciare milioni di dati in pochi minuti, individuando schemi e scoprendo opportunità che probabilmente perderemmo”, spiega il docente.
In questa dimensione, la macchina non sostituisce la mente umana, ma la libera dal lavoro ripetitivo, permettendo ai professionisti di concentrarsi sulle fasi di intuizione e decisione strategica.
La seconda lente, quella dell’abilitazione, mostra come l’AI non si limiti a migliorare processi esistenti, ma apra spazi completamente nuovi di collaborazione. Dahlander menziona il Federated Learning, una metodologia che consente di addestrare modelli di AI su dataset distribuiti senza condividere direttamente i dati sensibili. Nel settore sanitario, questa pratica permette a diverse organizzazioni di cooperare salvaguardando la privacy dei pazienti.
Un altro esempio arriva dal mondo musicale, con la piattaforma IK Multimedia TONEX, che utilizza algoritmi di AI per modellare digitalmente amplificatori di chitarra rari. In questo caso, l’AI diventa un mezzo per trasformare conoscenza specialistica in risorsa collettiva, creando un nuovo mercato basato sulla replicabilità e sulla condivisione di competenze.
La terza prospettiva, quella della sostituzione, introduce un elemento di discontinuità: l’AI non solo assiste, ma può generare in modo autonomo nuove idee e soluzioni. Se un tempo la creatività organizzativa si basava su brainstorming e crowdsourcing, oggi gli algoritmi generativi riescono ad analizzare enormi quantità di dati e a proporre alternative progettuali. “Le idee generate dall’AI sono spesso valutate come più creative di quelle dei professionisti umani”, osserva Dahlander, sottolineando come il ruolo dell’uomo stia cambiando: da creatore di idee a curatore e implementatore delle intuizioni prodotte dall’AI.
I nuovi network della conoscenza
L’integrazione tra open innovation e intelligenza artificiale modifica anche le dinamiche dei network di conoscenza. La collaborazione non è più limitata a partner selezionati, ma si estende a comunità digitali e piattaforme globali. I confini tra interno ed esterno all’impresa si dissolvono, e il valore nasce dalla capacità di orchestrare flussi di dati, competenze e algoritmi.
Dahlander parla di un “mondo ibrido” in cui l’intelligenza artificiale democratizza l’innovazione, rendendola accessibile “a chiunque abbia un’idea, indipendentemente dal background tecnico”. Questo significa che la capacità di partecipare ai processi di co-creazione non dipende più esclusivamente da risorse economiche o infrastrutture proprietarie, ma dalla possibilità di accedere a strumenti digitali condivisi.
Ne emerge un nuovo equilibrio tra esperti e inesperti, tra intelligenza individuale e collettiva. Le piattaforme basate su AI consentono di coinvolgere cittadini, designer, startup e ricercatori in ecosistemi dinamici in cui l’innovazione si alimenta di feedback continui e di esperimenti distribuiti.
Fiducia, trasparenza e governance dei dati
Con l’espansione dell’AI nei processi di innovazione aperta emergono questioni di etica e governance. Dahlander richiama il caso di Adobe, che ha affrontato critiche dopo l’introduzione di nuove policy sui dati: alcuni clienti temevano che le informazioni proprietarie potessero essere utilizzate senza consenso. “È un promemoria del fatto che, man mano che cresce il potere dell’AI, deve crescere anche la nostra attenzione al lato umano dell’innovazione”, afferma il professore.
La fiducia diventa un elemento strutturale: senza trasparenza sull’uso dei dati, i modelli di collaborazione aperta rischiano di frammentarsi. Allo stesso tempo, la responsabilità condivisa richiede nuove forme di coordinamento tra aziende, istituzioni e utenti. La gestione della proprietà intellettuale, la protezione della privacy e la qualità dei dataset diventano dimensioni cruciali dell’innovazione stessa.
Verso una nuova cultura dell’innovazione aperta
Il contributo di Linus Dahlander apre una riflessione più ampia sul futuro della collaborazione tra esseri umani e macchine. L’AI non è solo uno strumento per accelerare i processi, ma un attore cognitivo che modifica la natura del lavoro creativo e le logiche di scambio della conoscenza.
Il punto di equilibrio non risiede nel contrapporre l’intelligenza umana a quella artificiale, ma nel costruire modelli ibridi capaci di valorizzare entrambe. La sfida per le organizzazioni sarà quella di mantenere una cultura aperta, dove la curiosità, la sperimentazione e la responsabilità etica restino centrali anche in un contesto di crescente automazione.
Come ricorda Dahlander, “fiducia, trasparenza e collaborazione stanno diventando più importanti che mai”. Una sintesi che restituisce la portata culturale della convergenza tra open innovation e intelligenza artificiale: un’evoluzione che non riguarda solo la tecnologia, ma il modo stesso in cui intendiamo l’innovare.







