Negli ultimi dieci anni, una parte dell’innovazione globale ha iniziato a nascere non più “dal garage” ma da strutture professionali costruite apposta per creare nuove imprese: gli startup studio, o venture builder, di cui abbiamo parlato QUI. Macchine di company creation che uniscono capitale, talenti, competenze e metodo e che rappresentano una delle risposte più interessanti all’aumento del rischio nel venture capital tradizionale e al bisogno di pipeline più qualificate da parte di corporate, fondi e family office.
Il problema, però, è che sotto l’etichetta “startup studio” convivono modelli anche molto diversi tra loro. Capirne le differenze è fondamentale per scegliere un partner affidabile e investire in modo consapevole. Non è un caso che alcuni modelli siano ormai divenuti punti di riferimento anche per i fondi VC, che spesso (soprattutto all’estero) collaborano con gli studio per avere deal flow più qualificato.
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Modelli di startup studio: come distinguerli
Per distinguere i vari modelli procederemo con un confronto su almeno 5 dimensioni: exit strategy, modello di investimento, equity model, livello di operatività e specializzazione. E lo faremo anche attraverso alcuni degli esempi più rilevanti negli USA e in Europa. (Fonte dell’immagine sottostante: https://inniches.com/startup-studios-research)

1) Exit strategy. Ovvero che tipo di uscita aspettarsi
La exit è spesso la variabile che definisce l’intero modello. Ne definiamo almeno 4:
- Modelli orientati a M&A rapido o trade sale (es. Idealab, Rocket Internet storico): questi studio puntano a costruire imprese scalabili e appetibili per acquirenti strategici. L’obiettivo è creare aziende “build-to-sell” in cui lo studio mantiene controllo operativo per arrivare a una cessione. L’exit è relativamente precoce e legata all’implementazione di playbook replicabili.
- Modelli orientati a IPO o scaleup di lungo periodo (es. Atomic): alcuni builder operano con l’obiettivo di far crescere imprese fino a round grandi o IPO. Qui l’orizzonte è più lungo, con maggior capitale concentrato e ricerca di mercati ampi.
- Modelli ibridi o «buyback» (es. eFounders, alcuni SaaS studio): lo studio lancia il prodotto, assume ruoli operativi, poi cede quote al team imprenditoriale o a investitori esterni in fasi successive; a volte lo studio riacquista parte delle quote (o il contrario) a seconda delle esigenze.
- Corporate venture studio: l’exit può essere anche un’integrazione interna (la startup diventa business unit della corporate) o una cessione strategica a partner industriali. L’obiettivo non è sempre monetario puro ma strategico.
In pratica: se il tuo orizzonte è una exit rapida su operatori settoriali, cerchi Rocket-like o Idealab-like; se punti su una costruzione di categoria e IPO, guardi ad Atomic o a studio che co-investono pesantemente.
2) Chi mette i soldi e come? Modelli di investimento
Il capitale negli Startup Studio non è soltanto una risorsa: è la leva che determina l’intero modello operativo. Cambia infatti tutto a seconda di chi mette i soldi, quando e con quale grado di controllo.
Ci sono studi – come Idealab o la prima Rocket Internet – che scelgono un’impostazione “studio-first”: finanziano internamente le idee, investono direttamente nelle prime fasi e tengono il volante saldamente in mano. È un modello rapido e muscolare, capace di portare in mercato un progetto con grande velocità. Ma è anche un percorso che concentra sullo studio quasi tutto il rischio.
All’estremo opposto troviamo modelli più ibridi, come quello di Atomic, che affiancano allo studio un vero e proprio fondo di investimento. Qui la fase embrionale viene orchestrata dallo studio, ma la crescita è sostenuta da capitali dedicati: una formula che combina la rapidità del venture building con la potenza di fuoco di round più strutturati.
Ci sono poi studi che preferiscono coinvolgere partner VC fin dalle prime validazioni. È l’approccio di Pioneer Square Labs o, in parte, eFounders. Funziona così: lo studio costruisce il concept, realizza un MVP solido e poi apre la porta ai venture capitalist per scalare il progetto. Il rischio viene condiviso e, allo stesso tempo, il network si amplia.
Un’altra categoria è rappresentata dai modelli studio-as-a-service, tipici di alcuni approcci ispirati a Betaworks. In questi casi lo studio mette a disposizione competenze, team e product building, ricevendo in cambio fee o una quota di equity più contenuta. È un metodo meno capital intensive, adatto a contesti sperimentali o a startup ancora ai primi mattoni.
Infine, i corporate venture studio: qui è un’azienda a finanziare lo studio, con l’obiettivo di esplorare nuovi mercati o tecnologie complementari al business. Il capitale ha quindi una matrice strategica più che finanziaria; ciò che conta non è solo il ritorno economico, ma la possibilità di generare soluzioni utili al core business.
In tutte queste varianti, il trade-off rimane sempre lo stesso: più capitale interno significa più controllo e più velocità, mentre coinvolgere investitori esterni offre maggiore leva finanziaria e un ecosistema più ampio, ma spesso comporta la necessità di allineare più visioni sul percorso della startup.

3) Equity model e numero di founder: come si spartisce la “torta”
Se c’è un luogo in cui la filosofia di uno startup studio si rivela senza filtri, è nel suo equity model. La struttura azionaria racconta molto più dei numeri: rivela quanto controllo vuole mantenere lo studio, quanto valore attribuisce al team fondatore e quale tipo di rapporto immagina tra builder e imprenditori.
Ci sono studi – come Idealab o la prima Rocket Internet – che puntano su un’elevata ownership iniziale. In questo modello, lo studio si prende una quota molto significativa fin dal giorno zero, a compensazione del lavoro svolto in fase di ideazione, del capitale investito e del rischio assunto. I founder entrano spesso come co-founder “interni”, con una quota iniziale più contenuta ma con la prospettiva di crescere nel tempo.
Poi ci sono modelli più orientati alla partnership, come quello di eFounders. Qui la divisione equity è ancora sbilanciata verso lo studio, ma tutto avviene con grandissima trasparenza: meccanismi chiari di trasferimento, percorsi di crescita strutturati, incentivi pensati per attrarre co-founder forti sul prodotto. Non a caso funziona bene nei modelli SaaS, dove il builder affianca i founder con veri team di prodotto.
Altri studi adottano strutture ancora più evolute, con equity dinamiche e vesting legato all’operatività, come avviene in Atomic o in Pioneer Square Labs. In questi casi, l’ownership non è fissa ma segue milestone, performance e progressi reali dell’azienda. L’equity diventa quindi un sistema a tre: studio, management, investitori esterni – tutti allineati verso obiettivi misurabili.
All’estremo opposto troviamo i modelli service-for-equity, tipici di Betaworks o degli studio-as-a-service: qui lo studio entra con quote ridotte in cambio di servizi, team e competenze. È un approccio più leggero, ideale per testare nuove idee limitando l’esposizione finanziaria.
Anche il tema dei founder cambia molto a seconda del modello. In molti studi prevale il concetto di “co-founder as a service”: 1-2 founder esterni, selezionati e supportati da un team operativo molto forte. In altri casi lo studio nomina un vero e proprio CEO di transizione, che guida i primi mesi finché la startup non è pronta ad accogliere un founder dedicato.
In sintesi, l’equity model non è mai solo una formula finanziaria: è l’espressione diretta della cultura dello studio, del modo in cui interpreta la creazione d’impresa e della sua visione sul ruolo dei founder.

4) Quanto lo studio è “spalla” concreta: operatività
Tra tutte le variabili che distinguono uno startup studio, l’operatività è quella che più ne definisce la reputazione. È la parte visibile del lavoro: come costruisce prodotto, come scala, quanto è davvero in grado di “mettere le mani nel motore” della startup.
Ci sono studi che fanno dell’esecuzione il proprio marchio di fabbrica, come Idealab o la prima Rocket Internet: strutture imponenti, con team permanenti di product, engineering, marketing. In pratica, mini–corporate capaci di lanciare spin-off in serie. L’operatività è pesante, costosa, ma anche estremamente efficace.
Altri, come eFounders, adottano un approccio più snello ma product-centric. Intervengono in modo decisivo su product management e go-to-market, meno su tutte le funzioni. La forza qui sta nella qualità del prodotto e nella velocità con cui riescono a portarlo sul mercato.
Poi ci sono modelli ibridi – Atomic, Pioneer Square Labs – che uniscono un nucleo operativo forte (chief product, head of talent, design leadership) a un management esterno reclutato ad hoc. Lo studio imposta direzione e metodo, poi lascia che siano i founder a guidare la macchina.
E infine realtà come Betaworks, che funziona più come un laboratorio: molta sperimentazione, cicli rapidi, una community attiva che genera intuizioni e prototipi. Qui non si punta al volume, ma alla creatività.
La regola è semplice: più l’operatività è alta, più lo studio è costoso da sostenere – ma più forte diventa il suo vantaggio competitivo. Perché l’execution, quando è fatta bene, è il vero “moat” che separa un builder qualunque da uno capace di creare aziende che scalano davvero.
5) Specializzazione: studi verticali e generalisti
Un elemento che orienta in modo decisivo dove e come costruiscono aziende è la loro specializzazione. La scelta di essere generalisti o verticali non è un dettaglio: determina il tipo di mercato a cui si rivolgono, il talento che attraggono, la velocità con cui prototipano e scalano.
Ci sono innanzitutto gli studio generalisti, come Idealab o la storica Rocket Internet, capaci di lanciare startup in settori anche molto diversi tra loro. Lavorano per replicare playbook già collaudati, con un intervento operativo forte e un approccio “industrializzato” alla creazione d’impresa. Sono modelli scalabili per volume, ma più esposti al rischio di superficialità tecnica quando si avventurano in mercati molto specializzati.
All’estremo opposto ci sono gli studio product-led, soprattutto quelli centrati sul SaaS B2B, dove eFounders resta il caso scuola. Qui la filosofia è un’altra: prima il prodotto, poi il resto. Un’ossessione per UX, design, business model e go-to-market, che genera aziende ripetibili, con economics prevedibili e altissima appetibilità per i VC.
Accanto a questi modelli si sta affermando una nuova generazione di builder deep-tech, spesso nati accanto a università, centri di ricerca o grandi laboratori industriali. Operano su tecnologie dure – semiconduttori, biotech, advanced manufacturing – dove i cicli di sviluppo sono lunghi e i capitali richiesti consistenti. È un ecosistema ad alta complessità, ma con una barriera d’ingresso altrettanto alta e un valore potenziale enorme.
Un’altra categoria sempre più rilevante è quella dei Corporate Venture Studio, creati direttamente da aziende per esplorare mercati emergenti come energy, mobility, fintech. Qui lo studio sfrutta asset interni, distribuzione e competenze industriali della corporate, con l’obiettivo di generare soluzioni complementari o future business unit. È un modello strategico, spesso più lento, ma con più certezza di mercato e un chiaro allineamento agli obiettivi aziendali.
Infine, ci sono le forme ibride – Betaworks è il riferimento storico – che funzionano come laboratori creativi a metà tra studio, incubatore e community. L’obiettivo non è costruire startup in serie, ma generare idee, testare velocemente e far emergere prodotti con potenziale.
La tendenza più evidente degli ultimi anni? La verticalizzazione. In un mondo dove settori come climate tech, industrial AI o biotech richiedono competenze profonde e non replicabili, gli studio specializzati stanno acquisendo sempre più valore. Non basta più “fare startup”: serve farlo dove la conoscenza tecnica diventa il vero superpotere.
Startup Studio: il panorama in Italia
E in Italia cosa succede? Il panorama degli startup studio è ancora giovane e molto eterogeneo: più che una scuola definita, esiste un insieme di modelli ibridi che riflettono la struttura – e i limiti – del nostro ecosistema.
Accanto agli studio indipendenti orientati al digitale e al SaaS, che replicano in versione “light” il playbook europeo puntando su prodotto e team snelli, si stanno affermando gli studio corporate creati dalle grandi aziende per esplorare nuove linee di business in modo più agile, spesso in collaborazione con università e centri di ricerca. A questi si aggiungono i tech-transfer builder legati agli atenei, potenzialmente strategici sul deep-tech ma ancora frenati da un mercato dei capitali poco adatto a sostenere cicli di R&D lunghi, e gli studio-as-a-service, forse il modello più diffuso nel Paese: agenzie o boutique che trasformano il loro lavoro operativo in veri e propri progetti imprenditoriali, spesso con equity limitata.
Rispetto ai modelli internazionali, gli studio italiani tendono a concentrarsi su verticali con runway più breve – come SaaS e digital transformation – anche per via della minore disponibilità di capitali; inoltre il settore è fortemente influenzato da partnership pubbliche, fondi regionali e iniziative PNRR, dando vita a configurazioni ibride dove lo studio diventa il punto di incontro tra imprese, università e policy. Non mancano casi particolari, come gli studio nati da laboratori industriali o quelli che operano anche come corporate venture partner, integrando investimenti e accesso immediato a clienti.
Nel complesso, l’Italia sta ancora cercando un equilibrio tra questi modelli, ma proprio questa ibridazione – molto italiana – si sta rivelando una risorsa: meno ortodossia, più adattamento alle esigenze reali del territorio.

fonte: Startup Bakery






