Il dibattito
Direttori stranieri nei musei, sì della startup dell’arte: “L’estero è il nostro Dna”
Luca Desiata, founder e Ceo di pptArt, realtà italiana che offre una piattaforma di crowdsourcing per collegare clienti e artisti, commenta le nomine di 7 stranieri alla guida delle nostre strutture museali: “Lavoriamo con creativi di 72 Paesi, la cultura non ha confini. Bisogna evitare i provincialismi. E imparare l’inglese”
di Luciana Maci
Pubblicato il 20 Ago 2015

“Invece fa parte del naturale scambio di competenze a livello internazionale” è l’opinione di Desiata, alla guida di una società che è in costante contatto con musei italiani ed esteri. pptArt è sostanzialmente il frutto della creatività collettiva dei suoi artisti, perché mette in contatto domanda e offerta attraverso il meccanismo del crowdsourcing: il cliente che desidera un’opera può scegliere tra quelle realizzate ad hoc dagli artisti aderenti alla piattaforma. Da giugno la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea (Gnam) di Roma ospita una mostra organizzata proprio da questa startup, che si intitola “Corporate Art” e mira a recuperare la tradizione di collaborazione tra il mondo dell’arte e quello dell’impresa. Sono esposte opere di Emilio Tadini, Peter Max, Ugo Nespolo e molti altri.
Che il direttore sia italiano o straniero non conta molto, per pptArt. “Per 7 stranieri che sono arrivati in Italia, ci sono molti più italiani che ricoprono posizioni chiave all’estero” commenta Desiata, che è anche dirigente Enel e docente di Corporate Art al Master of Art della Luiss Business School di Roma. “Il problema semmai – prosegue – è che molti artisti italiani parlano poco le lingue. Io ne parlo cinque, nel mio team sanno tutti l’inglese, ma da noi esiste una difficoltà oggettiva. Solo un esempio: inizialmente abbiamo pubblicato online in inglese il manifesto di pptArt. Consisteva appunto in un testo e in un formulario da riempiere da parte degli artisti per poter aderire alla piattaforma. È stato firmato da americani, inglesi, europei ma da pochissimi italiani. Solo quando lo abbiamo pubblicato in italiano sono arrivate le iscrizioni. Oggi siamo a 500 italiani che hanno aderito. Ma è chiaro che questo è un nostro limite, e non solo nel mondo dell’arte”.
Lavorare con musei italiani o stranieri: c’è differenza? “Stiamo cercando di collaborare con un museo inglese e devo dire che in Uk le strutture museali sono molto più aperte ad accogliere l’innovazione, anzi la cercano. Inoltre all’estero è più facile raggiungere le persone incaricate delle decisioni: vieni valutato per l’idea in sé. Mentre presentare un’idea all’interno del sistema italiano non è così semplice”.
Un’ultima osservazione sulle nomine: “Sono europei, ma io avrei introdotto almeno uno statunitense, perché sono i migliori nel fund raising, riescono cioè a trovare agevolmente gli sponsor per finanziare le iniziative. Invece nei musei italiani il fund raising viene solitamente considerato una pratica poco nobilitante. Di conseguenza anche i sostenitori si rendono conto che hanno scarsa visibilità, perciò sono meno disponibili a elargire fondi. Un serpente che si morde la coda. E una mentalità tutta italiana”.