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Basta acceleratori di startup? Ecco perché non funzionano (ma anche perché ancora servono)



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Gli acceleratori di startup non rappresentano un investimento efficace di capitale pubblico, per almeno quattro ragioni. Ma restano un modo per diffondere una nuova cultura imprenditoriale sui territori

Pubblicato il 9 set 2025



STARTUP

Lo spunto per questa settimana viene da un articolo (molto diretto e – devo dire – non del tutto unbiased) di Paul O’Brien su Startup Economist dal titolo (provocatorio): “Stop funding Accelerators”.

La parte interessante dell’articolo (poi arriviamo a quella che mi convince meno) è quella in cui Paul sostiene che gran parte degli acceleratori di startup non superino i test fondamentali di VC readiness e che, quindi, rappresentino un investimento non efficace di capitale pubblico (e non solo).

Acceleratori di startup, perché sono popolari

Premessa: negli ultimi dieci/quindici anni lanciare un acceleratore di startup si è di fatto affermato come il modo con cui una amministrazione (locale, regionale, nazionale) manifesta attenzione al mondo dell’innovazione e delle startup. Con le dovute proporzioni e differenze,  lo stesso discorso si potrebbe trasporre anche alle imprese.

La preferenza per questo strumento è associata ad una serie di caratteristiche che, agli occhi della politica, risultano particolarmente suadenti.

  • È associato a un posto fisico. Quindi può diventare un’occasione di riconversione di aree che nel tempo hanno perso funzionalità (pensiamo alle tante aree industriale dismesse).
  • Ha momenti di inaugurazione (se organizzato in cicli annuali, anche ogni anno) e di chiusura. Quindi diverse opportunità di tagli di nastro e visibilità.
  • Passa il messaggio di poter attirare talento ed imprese sul territorio, quindi creare contaminazione ed occupazione.
  • Organizza molti eventi. Quindi ospita tante persone offrendo panels e talks.

È solo Startup Theater?

Per quanto il tutto possa sembrare bello e, dal punto di vista dei leader locali (che devono fare azioni visibili), forse anche sufficiente, secondo Paul O’Brien non è altro che startup theater. Ciò per quattro ragioni.

1️⃣ No distinctive deal flow. Se un acceleratore seleziona solo dalle candidature locali, attinge a un bacino limitato e spesso di scarsa qualità. Il rischio è che la maggior parte dei founders applichi per avere uno spazio di coworking gratuito e un po’ di mentorship.

2️⃣ Lack of market-driven focus. Gli acceleratori spesso propongono programmi generalisti, anche perché il deal flow si restringerebbe ulteriormente se si limitasse ad un verticale specifico..

3️⃣ Over-indexing on pitch training for appearances. Troppi acceleratori passano più tempo sugli slide deck che sulla business e value proposition. In altre parole ci si limita alla “lucidatura” di standard pitch deck template. Il risultato è che i Demo Days tendano ad essere più eventi teatrali che reali opportunità di business e funding. 

4️⃣ No capital leverage. Gli acceleratori raramente investono capitale significativo. Senza vero “skin in the game”, si fatica ad attrarre co-investitori, che invece in genere fanno affidamento su lead capital intelligente e allineato.

Un acceleratore di startup è un vero motore di innovazione?

Per un territorio avere un acceleratore non equivale quindi ad avere un motore di innovazione. Paul lo definisce una candela (sparkplug), un piccolo impulso per il motore… ma di per sé, non basta perché non c’è un reale motore dietro.

Difatti molti acceleratori si spengono dopo poco tempo.

Paul si spinge ulteriormente, parlando addirittura di “signaling program” a connotato negativo. Avere un acceleratore rischia di passare il segnale di un territorio che si limita a rincorrere le mode (che peraltro tanto mode non sono più).

Guardando a quello che si è fatto in Italia e in Europa, sia da parte di enti locali che nazionali (da noi l’esempio più visibile è forse quello della  Rete Nazionale Acceleratori CDP) che di tante aziende (non ho dita a sufficienza per contare le iniziative dismesse), molto di quello che racconta Paul risulta abbastanza fattuale. 

Gli acceleratori diffondono una nuova cultura d’impresa

Ci sono tre cose della narrativa di Paul con cui non mi ritrovo.

  1. I programmi di accelerazione, per quanto non abbiano prodotto risultati tangibili in termini di innovazione (leggasi aziende che creano fatturato e occupazione, che, alla fine, è l’unica cosa che davvero conta), hanno tuttavia contribuito a diffondere una nuova cultura di impresa e a stimolare un rinnovato spirito imprenditoriale in un paese un po’ spento. E parlando di cultura, si sa che è un treno che viaggia lento e che quindi produrrà risultati solo nel tempo.
  2. C’è (e rimane) la necessità di avere sui territori infrastrutture di innovazione (tech transfer, laboratori, spazi di prototipazione, …) sul modello, ad esempio, di London GreenCity e dei Greentown Labs. Però, se si parla di programmi, la eccessiva dispersione territoriale non aiuta a fare massa critica e a lavorare sull’eccellenza.
  3. Il fatto di spingere gli startup studios come “la” soluzione alternativa. Al di là del fatto che Paul sia un po’ biased sul tema e che gli startup studios abbiano un potenziale interessante, sarebbe sbagliato (oltre che prematuro, data la loro ancora limitata esperienza di applicazione, perlomeno alle nostre latitudini) credere che un modello sia meglio di un altro. Come tutti i modelli è il modo con cui vengono implementati che fa realmente la differenza.
    E qui, al di là di casi virtuosi, il limite comune è la carenza di esperienza, che purtroppo prescinde dai modelli ma che dipende dal livello di maturità dell’ecosistema. Purtroppo la qualità dei mentor e il network di relazioni non si può costruire in laboratorio ma cresce di pari passo con l’evoluzione dell’ecosistema. Più startup di successo avremo, più founders e investitori avremo in grado di produrre (reale) valore.
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