Così i negozi fisici rinascono grazie al web

Mentre i ricavi da ecommerce aumentano (+17% in Italia nel 2013), un colosso come Amazon sta per aprire il primo store fisico a New York. Il reverse ecommerce cresce. E trasforma – come spiega Fabrizio Valente di Kikil Lab – i punti vendita in “luoghi legati all’esperienza che hanno nel rapporto con il personale il loro elemento di forza”

Pubblicato il 23 Ott 2014

retail-141023013549

Alcuni lo definiscono commercio di ritorno, altri una moda, altri ancora la rivoluzione irreversibile delle vendite al dettaglio: sta di fatto che, nell’era degli acquisti online, sempre più negozi virtuali, anche in Italia, aprono punti vendita fisici o adattano quelli esistenti ai servizi offerti via web dando vita al reverse ecommerce.

Il fenomeno non è nuovo nel settore retail – Ikea utilizza da anni i suoi capannoni  più come showroom e spazi di ritiro merci acquistate online che come negozi classici –   ma è tornato d’attualità dopo che Amazon ha annunciato l’imminente apertura del suo primo store fisico a New York: proprio a ridosso di Natale gli affezionati clienti di Jeff Bezos potranno ritirare o cambiare la merce prenotata e acquistata via web rivolgendosi a un essere umano anziché allo schermo del proprio tablet.

I dati
Un cambiamento epocale per uno dei colossi dell’ecommerce (19,3 miliardi di dollari il fatturato del secondo trimestre 2014) che ha sempre basato il suo successo sull’assenza di uno spazio reale in cui fare shopping, preferendo investire le sue risorse nei servizi di assistenza e  consegna della merce direttamente a casa.

Del resto lo smantellamento degli scaffali fisici a favore di quelli virtuali è conveniente: solo in Italia, secondo i dati di una ricerca curata da Netcomm e Politecnico di Milano, nel 2013 il valore delle vendite realizzate dai siti web nostrani ammontava a oltre 13 miliardi di euro, in crescita del 17% rispetto all’anno precedente. Nello stesso anno le vendite dirette nei negozi diminuivano del 2,6 per cento (fonte Istat).

Dati che confermano come l’acquisto online sia considerato più facile e veloce (per il cliente) e in grado di abbattere i costi di gestione, energia e personale (per il venditore).

L’esperto
Allora perché chi fa fortuna sul web dovrebbe decidere di aprire un negozio reale? «Perché per vendere di più oggi occorre integrare lo

Fabrizio Valente

spazio fisico di vendita con quello online: è questa la formula capace di sfruttare al meglio le potenzialità del digitale nel settore retail», spiega Fabrizio Valente, consulente esperto di retail e partner fondatore delle società di consulenza Kiki Lab ed Ebetoft Group. Secondo Valente, infatti, il web avrebbe rimodellato e rivoluzionato anche i negozi fisici trasformandoli in spazi di esperienza e fornendo a mercati come quello italiano ottime prospettive di sviluppo commerciale. Opportunità che il prossimo 12 novembre a Milano saranno presentate proprio da Valente nell’ambito dell’evento K-Best.

Una nuova tipologia di addetti
Scelte  come quelle di Amazon sarebbero studiate non tanto per tornare al vecchio modello di shopping. Semmai, per rappresentarne la versione 4.0. «Pensare ai negozi reali del futuro come a luoghi di ritiro merci senza possibilità di acquisto è una visione sbagliata –  continua Valente – Il negozio sarà un luogo legato all’esperienza fisica con un grande punto di forza: la relazione con il personale e gli addetti vendita che sono i veri protagonisti di questa rivoluzione».

La mente corre agli addetti degli Apple Store, formati quasi più come assistenti di volo pronti a seguire il cliente passo passo che come venditori: eppure sbaglieremmo a considerare gli States maestri di retail alternativo.

I casi in Italia
L’Italia, infatti, riserva delle perle tutte da scoprire. Il Presso Kook Sharing Experience a Milano, ad esempio, è una di queste. Dovrebbe essere un negozio di design, ma non ha nulla degli show room tipici del settore: si tratta di uno spazio fisico prenotabile solo online per un periodo di tempo abbastanza lungo – fino a 3 ore –  suddiviso in “case”, cioè spazi letteralmente abitabili dai potenziali acquirenti di mobili o utensili da cucina i quali possono, appunto, cucinare, mangiare o rilassarsi nello store. In questo caso gli addetti vendita sono personale istruito per servire o accompagnare i clienti nel corso del loro soggiorno in negozio. Presso ha aperto nel 2013 e registra una media di 1800 passaggi di clienti al mese con un prezzo medio a visita che va dai 50 ai 150 euro a persona. Nello store, prodotti e oggetti firmati da marche di design italiano possono essere acquistati sul sito: la vetrina virtuale che ospita un nutrito catalogo di prodotti altrimenti non esponibili dal vivo.

Anche la catena Ham Holy Burger (marchio dell’italiana Sebeto, holding da oltre 100 milioni di fatturato l’anno e che ha lanciato Rossopomodoro)  ha adattato i suoi negozi all’era digitale. Ai clienti che si siedono al tavolo viene consegnato un iPad per ordinare i pasti, personalizzare l’ordine con ingredienti e caratteristiche di cottura, navigare in rete. Gli addetti sono pronti a dare tutte le informazioni di supporto. Proprio come accade in un negozio di vestiti.

Il futuro dei negozi fisici
«Dobbiamo aiutare gli addetti a interagire con clienti sempre più preparati grazie al web – precisa Valente – Spesso chi entra in negozio vuole sapere perché lo stesso prodotto online costi il 30% in meno rispetto a quello sullo scaffale: il personale  deve essere formato per dare risposte adeguate». Non basterebbe uno schermo touch screen in negozio da consultare liberamente? «No, non funziona. Bisogna mettere il tablet nelle mani dell’addetto che deve guidare il cliente tra i prodotti, le scelte, i prezzi».

Eppure ci si chiede se nell’era digitale il personale fisico non sia destinato a sparire a favore di app e pc. «In Inghilterra si stima che nel giro di pochi anni ci sarà un calo di negozi fisici sul mercato pari al 23% con ovvie ricadute sulla forza lavoro, ma dipende dai settori» spiega Valente. Mentre realtà come Ikea tenderebbero a ridurre gli spazi reali di vendita diretta, comparti come quello intimo potrebbero espandersi. Dando vita a metri e metri quadrati di lingerie esposta al pubblico, con personale specializzato per offrire ai clienti supporto nella scelta di cosa indossare.

E-commerce federalista
Ma la rivoluzione del reverse ecommerce non si limita alla formazione dei venditori. Secondo gli analisti del comparto retail, la vera sfida sta nell’integrare web e negozio fisico facendo assumere al secondo i punti di forza del primo strumento e mandando in soffitta la storica rivalità tra vendita online e vendita in loco. Un’intuizione colta anche da diverse startup innovative tra cui la torinese Regalister che un anno e mezzo fa lanciava un’app per fotografare prodotti nei negozi da inserire in una lista virtuale di regali da sottoporre ad amici e conoscenti che, per comprare, devono tornare nello store.

Applicazioni a parte, uno dei fenomeni più interessanti riguarda le realtà commerciali italiane consorziate o ricondotte alla formula del franchising. Valente ha studiato bene le dinamiche di vendita online e in negozio di questi esercizi e ha tratto una conclusione. «A dispetto delle apparenze, in Italia siamo molto più avanti di altri Paesi nella sfida del reverse ecommerce inteso come integrazione tra negozio fisico e negozio virtuale per un motivo molto semplice – spiega –  Grazie al web anche i piccoli negozi di provincia possono beneficiare dei profitti della catena madre realizzati online senza contare il fatto che, come consumatori, noi italiani siamo affamati di digitale ma anche molto legati al contatto fisico con  il prodotto».

La formula per il matrimonio felice web/negozio fisico è questa: destinare ai venditori al dettaglio di un marchio determinato una percentuale dei guadagni realizzati tramite i siti online dalla casa madre, e personalizzando i locali periferici attraverso percorsi d’esperienza.  Altra soluzione è lasciare al negozio locale l’intero importo della vendita online se l’utente ha acquistato sì via web ma nella stessa zona in cui si trova lo shop, grazie al tracciamento del codice di avviamento postale.

Una sorta di federalismo in salsa ecommerce? «In un certo senso sì – risponde Valente – Ma si tratta solo di una strategia per rendere capillari e pervasivi gli acquisti unendo la capacità di penetrazione del web alla familiarità dello shopping nel proprio negozio di fiducia».

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

D
Barbara D'Amico

Articoli correlati

Articolo 1 di 4