Le imprese parlano spesso di collaborazione e interdisciplinarità, ma la distanza tra dichiarazioni e pratica è evidente in molti processi di innovazione. La moltiplicazione dei team cross-function, delle piattaforme collaborative e dei gruppi trasversali non garantisce di per sé un miglioramento della qualità delle idee. In molti casi, la complessità organizzativa aumenta senza generare nuove connessioni cognitive. Nel dialogo con Greg LeBlanc nel podcast unSILOed, Gary Pisano, professore alla Harvard Business School e studioso dei modelli di creatività nelle grandi aziende, osserva che le strutture non bastano: la vera collaborazione per l’innovazione aziendale nasce quando competenze distanti entrano in contatto in modo autentico, mettendo in discussione le proprie premesse e creando nessi che nessuna disciplina potrebbe generare da sola .
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I silos non sono un’anomalia: sono una conseguenza della specializzazione
Le organizzazioni moderne si basano sulla specializzazione, ed è proprio questa specializzazione a generare i silos. Non si tratta di un difetto del sistema: avere gruppi di esperti che parlano lo stesso linguaggio tecnico e rispondono a metriche comuni è spesso necessario per garantire efficienza e qualità. Il problema nasce quando queste comunità diventano impermeabili, producendo un linguaggio interno che gli altri non comprendono.
Pisano sottolinea che i silos non si eliminano attraverso strutture più complesse: “La matrix organization nasce per collegare i punti, ma finisce spesso per rendere i processi più pesanti”. LeBlanc osserva che il tentativo di unire funzioni diverse dentro lo stesso schema crea più linee di riporto, più riunioni e più allineamenti formali, senza necessariamente migliorare la qualità della cooperazione. Il risultato è che “tutti parlano con tutti”, ma pochi si capiscono davvero.
In questo scenario, la collaborazione per l’innovazione aziendale non deve essere confusa con la collaborazione amministrativa. Una riunione con più discipline presenti non garantisce l’emergere di idee. Senza un reale arbitraggio intellettuale, la complessità cresce ma l’innovazione no.
L’arbitraggio intellettuale: il vero motore dell’innovazione collaborativa
Il punto centrale della visione di Pisano è che l’innovazione nasce dall’arbitraggio intellettuale: la capacità di cogliere connessioni tra mondi che non dialogano spontaneamente. Questa attività non è legata alla struttura formale, ma a ciò che accade quando competenze distanti si incontrano in modo non ritualizzato.
Pisano chiarisce che l’arbitraggio non consiste nel mediare compromessi. È un lavoro di interpretazione: capire cosa un team sa e cosa un altro non vede, e tradurre questi elementi in configurazioni nuove. È una funzione che richiede persone capaci di “parlare due o tre lingue cognitive”, cioè di comprendere i problemi di un ingegnere e quelli di un designer, di un chimico come di un economista.
LeBlanc definisce queste figure “ponti cognitivi”, e Pisano concorda: il ruolo di chi crea connessioni non è marginale, ma fondamentale. In molte aziende, invece, questo lavoro non è riconosciuto, perché non appartiene a una funzione specifica. Eppure, è proprio da queste figure che dipende la qualità della collaborazione per l’innovazione aziendale.
Quando la struttura non basta: l’esempio dei team centrali di R&S
Nella conversazione, Pisano evidenzia che molte aziende creano grandi centri di ricerca per favorire la collaborazione. Tuttavia, anche questi rischiano di trasformarsi in silo se non si costruiscono meccanismi di scambio continui. Non è raro trovare centri di eccellenza che producono conoscenza di valore, ma che non riescono a trasferirla al resto dell’organizzazione.
Il trasferimento della conoscenza non avviene in automatico: richiede relazioni personali, fiducia e tempo. Richiede, soprattutto, conversazioni difficili, perché quando due discipline dialogano devono accettare la possibilità di mettere in discussione le rispettive certezze. Questo tipo di frizione è inevitabile e, anzi, è proprio il segnale che la collaborazione sta funzionando.
Perché i team piccoli innovano meglio dei grandi apparati trasversali
Pisano richiama un esempio che negli anni è diventato emblematico per molti studiosi di innovazione: la nascita di Amazon Web Services (AWS). Non per celebrarne il successo, ma per comprendere il meccanismo sottostante. L’innovazione non è arrivata da un grande comitato interfunzionale, ma da team piccoli, orientati al prodotto, dotati di autonomia e costretti a confrontarsi con problemi concreti.
Questi team non erano meno specializzati dei grandi dipartimenti: al contrario, avevano competenze molto tecniche. La differenza è che erano costretti a collaborare su problemi reali, non su processi. La loro interazione non era formale, ma sostanziale. Ed è in questa dinamica che si manifesta una delle intuizioni più forti di Pisano: “Quando i gruppi sono piccoli e responsabili di un risultato, le conversazioni diventano più profonde”.
Questo modello, osserva LeBlanc, produce una forma di disciplina cognitiva che favorisce l’innovazione: non c’è spazio per discussioni astratte, solo per ciò che permette di far funzionare il sistema. È una forma concreta di collaborazione per l’innovazione aziendale, perché obbliga le competenze a scontrarsi, integrarsi e trovare soluzioni insieme.
Perché la complessità organizzativa è il nemico naturale dell’innovazione
Le grandi strutture nascono con l’obiettivo di controllare la complessità, ma spesso la amplificano. Pisano sottolinea che ogni livello aggiuntivo di coordinamento riduce la capacità delle persone di interagire direttamente. L’innovazione, invece, richiede scambi intensi, non mediati, e richiede soprattutto l’emergere di ruoli non codificati: quelli che interpretano, collegano, traducono.
Ridurre la complessità non significa semplificare i processi fino a renderli superficiali. Significa creare spazi in cui le persone possano dedicarsi al lavoro cognitivo, invece che alla gestione amministrativa. Ed è qui che la collaborazione torna a essere un atto intellettuale, non un obbligo procedurale.
La collaborazione come disciplina cognitiva
La conclusione implicita della discussione tra Pisano e LeBlanc è che la collaborazione per l’innovazione aziendale non coincide con l’allineamento, né con la frequenza delle interazioni. È una disciplina cognitiva: la capacità di costruire connessioni nuove tra mondi che non parlavano tra loro.
Pisano non propone strutture organizzative, propone una pratica. La collaborazione non è un’identità aziendale, ma un lavoro quotidiano di interpretazione e ascolto attivo. E l’innovazione nasce proprio da questo terreno, dove le competenze si toccano – a volte scontrandosi – ma sempre arricchendosi.





