L'INTERVISTA

Aringhieri: così il gruppo Dompé affronta la disruption del pharma

«Stiamo creando un dipartimento di open innovation», annuncia a EconomyUp il CEO dell’azienda italiana. Che racconta come sta cambiando un’industria che ha sempre fatto ricerca. «Sta cambiando il mercato. La capacità di fare trasferimento tecnologico sarà fondamentale»

Pubblicato il 28 Apr 2017

Eugenio Aringhieri, Ceo del gruppo Dompé

Un top manager che twitta pensieri come quelli di Alvin Toffler non sorprende quando si presenta “attratto patologicamente dall’innovazione”.  Eugenio Aringhieri, da 10 anni CEO del gruppo biofarmaceutico Dompé, è fermamente convinto che le cose stanno cambiando, rapidamente, anche nell’industria farmaceutica, trasformandola in qualcos’altro. Capirlo in tempo è fondamentale, come farlo ce lo racconta in questa intervista, che parte da…una startup.

Il gruppo Dompé, che dopo l’acquisizione della divisione Farma di Bracco ha consolidato la sua posizione nel mercato italiano, affonda le sue radici nella metà dell’800 ma da tempo ha scelto di guardare con decisione al futuro, puntando sulle biotecnologie (controlla società come Philogen, Anabasis, AAA-Advanced Accelerator Applications) e sull’innovazione. Ora Aringhieri sta lavorando a un nuovo dipartimento di open innovation all’interno della ricerca e sviluppo, area sulla quale ogni anno viene già investito il 15% del fatturato (che è di circa 250milioni). Obiettivo: mettere a sistema le relazioni esistenti con circa 200 centri di ricerca nel mondo. È un percorso avviato senza pregiudizi e senza limiti.

«Dall’altra parte del palazzo, nella nostra sede milanese, da un anno ospitiamo e-Novia, società nata nel 2012 nel contesto del Politecnico di Milano e specializzata nello scouting di tecnologie e brevetti, per facilitarne l’assemblaggio e farne dei brevetti», comincia Aringhieri. e-Novia è appena diventata una spa e ha lanciato un piano di sviluppo internazionale che la rafforzerà come Invention Foundry, la fabbrica dell’innovazione e delle startup

Eugenio Aringhieri, CEO Gruppo Dompé

D. Aringhieri, Enovia però non si occupa di molecole e medicine… Più che altro è una “fabbrica di startup” dove si lavora su Internet of Things, wereable device, smart sensor. Perché un’azienda farmaceutica investe su (e accoglie) un team di ingegneri?
R. Io credo nella contaminazione. Guardi che cosa sta accadendo nell’automotive: c’è una seconda vita possibile per quella industria, ma con una diversa cassetta degli attrezzi. Lo stesso momento disruptive sta vivendo il farmaceutico. Non dimentichiamo che è già in fase di valutazione il primo e-drug: un farmaco grande quanto un granello di sabbia con la tecnologia inside più che wereable, in grado persino di connettersi. E questo cambierà radicalmente il mercato.

D. A che cosa servono quindi gli ingegneri di Enovia?
R. Avere vicino qualcuno che mettesse a fattor comune competenze è stato un elemento decisivo di scelta. Far lavorare ingegneri e scientist insieme significa accoppiare competenze digitali e biotech. Una combinazione necessaria per le sfide che ci attendono.

D. Lei guida il gruppo Dompé dal 2007. Che cosa è cambiato in questi ultimi 10 anni?
R. Tutto. Siamo passati dal primo al secondo tempo dell’industria farmaceutica. Nel mezzo secolo precedente c’era la chimica, c’erano grandi bersagli da colpire e un accesso al mercato sostanzialmente automatico ed estendibile. Nel secondo tempo c’è un bisogno totale di salute, hanno preso terreno i leader di costo, un antibiotico nuovo non fa certo la differenza, e la parola sostenibilità è diventata importante.

D. Quali sono le sfide per un gruppo farmaceutico?
R. Da una parte sviluppare terapie sempre piu evolute, per dare risposte sempre più convincenti. Dall’altra avere una diagnostica fine sempre più sostenibile, personalizzata e capace di intervenire prima che si arrivi alla malattia.

D. D’accordo, ma il vostro business non resta vendere i farmaci?
R. Sì, certo. Ma il patient journey non sarà più lo stesso.  I 7mila farmaci previsti nei prossimi cinque anni cambieranno la storia del paziente e c’è la necessità di dare risposte sempre più convincenti…Il tema è far star bene le persone, valutando attentamente l’impatto sui costi. Sostenibilità non significa solo tagliare il prezzo dei farmaci.

D. Una forte trasformazione per il modello di business tradizionale…
R. Sì, per questo serve un open innovation approach, una governance forte del cambiamento ma anche allearsi con altri player. Oggi non contano solo le dimensioni, devi anche saper fare bene. Quindi diventa sempre più importante il lavoro di squadra e non solo di impresa.

D. Il gruppo Dompé come sta affrontando la disruption?
R. Con il presidente Sergio Dompé abbiamo fatto la nostra scelta 10 anni fa, quando era già chiara la configurazione che stava prendendo il mercato: chi si occupa del primary care; i genericisti che puntano solo sul prezzo; la fascia di chi continua a fare ricerca. Noi abbiamo deciso di essere protagonisti in questa area premium, investendo sulla punta della piramide: le malattie rare. E allora abbiamo cominciato un bellissimo percorso che spero presto possa portare a nuovi farmaci ad alto valore aggiunto. A fine 2016 l’EMA ha approvato l’inizio del percorso di commercializzazione di gocce oculari per la cheratite neurotrofica, una malattia rara dell’occhio.

D. Lei è anche presidente del gruppo biotech di Farmindustria, da sei anni. Quanto chance ha l’Italia di avere un suo ruolo in questo mercato?R. Molte. La chimica ha fatto quel che doveva fare, il 20% dei farmaci in commercio sono già biotech, lo sono il 50% di quelli in sviluppo. Il biotech è uno di quei settori complessi, dove si è disposti a pagare un premio di competività a chi sa fare meglio e non a chi è più grande.. L’Italia quindi può fare la sua gara in questa industria, perché ha capacità scientifiche di livello internazionale. Ma c’è ancora un problema: gli scarsi investimenti del venture capital

D. Tutti d’accordo sulle capacità dei ricercatori italiani. Ma questa non significa automaticamente imprese di successo. Perché? 
R. Fare technology transfer è un mestiere. Giro spesso il mondo e non ho mai avuto la sensazione di un gap di capacità scientifiche. Semmai quel che manca in Italia è quel lavoro necessario per completare l’opera, per trasformare il valore scientifico in valore economico.

D. E come si può recuperare?
R. In Italia abbiamo 81 università, fra grandi e piccole, e molte eccellenze. La focalizzazione è uno dei temi: in che cosa sono specializzate? Poi bisognerebbe unire le forze per fare, appunto, technology transfer. Quindi serve un grande lavoro sui brevetti: quanto generano in termini di valore? Infine è necessario rimuovere quel senso di colpa, e di peccato, che molti scientist hanno quando si avvicinano al business. Nel mondo si investono 100 miliardi di ricerca l’anno, il 95% arrivano da aziende: i soldi non vanno inseguiti, devi attrarli. Sono loro che devono cercare te. E cominciamo a farlo se crei un ecosistema favorevole all’innovazione, aggreghi le giuste competenze. E il trasferimento è un elemento chiave in questo processo.

D. D’accordo, le Università devono cambiare. Ma anche nelle aziende serve un nuovo atteggiamento nei confronti dell’innovazione, non crede?
R. L’innovazione vera non si fa nelle imprese ma nei luoghi dove ci sono giovani disobbedienti, quindi nelle università, o nelle startup, dove c’è liberta, dove non ci sono regole…e c’è una maggiore capacità di affrontare i rischi del nuovo.

D. Quindi le grande aziende sono tagliate fuori dai processi di innovazione?
R. Assolutamente no ma deve cambiare il modo di fare impresa e di governare le imprese. Il sistema è diventato talmente complesso che un uomo solo al comando non funziona più. Non devi dare risposte, ma devi saper fare domande…A me fanno paura i depositari della verità, chi ha sempre una risposta su tutto perché ha sempre vinto. Perché adesso è cambiato il campo di gioco…

D. Che cos’è allora il CEO a questo punto?
R. Il nuovo CEO è un facilitatore, fa domande. Ovviamente per fare le domande giuste devi sapere di che cosa stai parlando…

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