Nuovo imperialismo

Se si consegna il Made in Italy a Google

Il colosso di Mountain View ha da tempo nel mirino l’Italia e il suo valore globale. Il suo obiettivo sono i budget di comunicazione di migliaia di piccole e medie imprese. E con la vetrina digitale appena lanciata fa un passo importante. con la benedizione di un ministero e di Unioncamere. Perché lasciargli campo libero senza chiedere una contropartita? Che cosa ne pensano i numerosi enti di promozione?

Pubblicato il 24 Gen 2014

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Con una battuta dal tono paternalistico potremmo dire “Non prendete caramelle dagli sconosciuti”, anche quando si presentano bene e anche se proprio sconosciuti non sono. Perché quella caramella rischia di essere la prima tessera di una strategia di conquista che porta alla dipendenza. Nel progetto “culturale” sul Made in Italy lanciato questa settimana in pompa magna da Google c’è un retrogusto amaro che continua a tornare su, nonostante la dolcezza del primo assaggio.

Il colosso di Mountain View ha preso di mira l’Italia, e il suo valore globale, da tempo. Risale a poco più di due anni fa il progetto “Fattore Internet” , un report di Boston Consultin Group sull’impatto del web sull’economia italiana accompagnato dalla presentazione di una serie di “casi di successo”. Lo scorso ottobre era stato il boss Eric Schmidt, che tanto ama l’Italia avendoci vissuto da bambino, ad anticipare il sostegno della sua compagnia alle eccellenze del Made in Italy. Pochi giorni fa l’importante passaggio operativo della strategia di “seduzione”: Google mette on line il meglio della produzione italiana apprezzata nel mondo e lo fa dopo aver registrato che le ricerche sul tema sono in costante aumento. Tutti comprensibilmente contenti di avere un angolo dedicato nella vetrina digitale più importante del mondo. Ma, se si va a guardare attentamente dietro la vetrina c’è qualcosa che stona.

Sebbene il progetto siano in capo al Google Cultural Insistute, Google non è né un ente di beneficenza, né un istituto di promozione. E’ un’agguerrita multinazionale che offre servizi gratuiti ai cittadini del web per rivenderli sotto forma di contatti alle aziende. L’obiettivo quindi è chiaro: i budget di comunicazione delle migliaia di piccole e medie imprese che fanno il Made in Italy. Legittimo, ma non si comprende perché il Ministero dell’Agricoltura, Unioncamere e altri soggetti istituzionali debbano dare la loro benedizione, quasi ringraziando per l’interessamento. Come se l’Italia non avesse né la forza né gli strumenti per promuoversi nel mondo. Anzi, ne ha anche troppi. Che cosa dice l’Ice che adesso si chiama Ace? E le centinaia di Consorzi di tutela? E le Camere di Commercio all’estero? E il Ministero degli Esteri? L’elenco potrebbe continuare a lungo e inutilmente.

Il problema è che non c’è una visione unica, chiara e forte, e Google approfitta abilmente della frammentazione del sistema per cominciare a piantare le sue bandiere sui presidi più interessanti per i mercati internazionali. Usa i contenuti di Unioncamere, li rilancia con la sua potenza di distribuzione e compie contemporaneamente una grande operazione di immagine che dovrebbe renderla più simpatica al Paese. Non si tratta tanto di proteggersi o alzare inutili steccati quanto di agire da protagonisti, avendo la volontà e la capacità di chiedere significative contropartite. E’ stato fatto? Se sì, non è stato detto. Perché un impegno così importante per lo sviluppo dell’economia digitale è stato preso senza una consultazione tra tutti i soggetti interessati ala promozione del Made in Italy? E che fine faranno i vari e dispendiosi progetti di portali da anni montati e rismontati?

L’Italia purtroppo è un po’ come casa Boccia, dove il marito battaglia per la webtax e la moglie è felice di consegnarsi a chi, controllando il web, riesce a eludere le tasse.

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