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Andrea Ferretti (EY): «Stiamo applicando metriche sbagliate» Ecco il fintech Made in Italy



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L’Italia non è la Silicon Valley: le fintech sono PMI radicate nelle filiere. Tasso di fallimento 6% (contro il 93% USA), ricavi medi 700mila euro e nessuna corsa alla quotazione. Il problema è applicare metriche americane a un ecosistema che funziona come il Made in Italy

Pubblicato il 17 dic 2025



fintech italiane

Guardando alle più recenti operazioni di M&A nel fintech italiano, emerge un pattern sorprendente: Switcho acquisita da Mavriq, FlowPay da Bancomat, illimity da Banca Ifis, Opyn da partner industriali. Nessuna di queste realtà era un unicorno, ma tutte avevano ricavi, struttura e team consolidati.

Andrea Ferretti, Partner e Clients & Industries Leader per i Financial Services in Italia presso EY, riassume così — il 3 dicembre 2025 — al convegno Osservatori Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano la chiave di lettura dell’intero ecosistema: stiamo osservando il fintech italiano con la lente sbagliata.

Il modello anglosassone in Italia non funziona

«Io temo che noi stiamo guardando al modello anglosassone — quindi UK e US — e lo vogliamo applicare al nostro ecosistema. Ma le due cose non c’entrano niente», spiega Ferretti.

Non è un’opinione estemporanea: è la conclusione di un anno di ricerca condotto dal Fintech District, che ha analizzato la relazione fra founder e investitori per capire perché, in Italia, faticano a incontrarsi.

I dati parlano da soli. In Italia operano 19.000 startup, con un tasso di fallimento del 6%. Negli Stati Uniti? 93%. Nel Regno Unito? 90%. Quando l’Osservatorio Cerved pubblicò il dato, i media titolarono “Il tasso di fallimento più alto mai registrato in Italia”. Eppure, nello stesso periodo, il tasso di fallimento medio delle imprese italiane era del 10%.

Le startup, in altre parole, falliscono meno delle aziende tradizionali.

Ferretti riassume: «Se stessimo sbagliando approccio, se davvero non avessimo capito nulla, non vedremmo questi numeri. Invece abbiamo visto che il nostro ecosistema non vuole diventare americano: lo sta rifiutando consapevolmente».

Una scelta deliberata: piccole imprese di filiera

«Tutto il nostro ecosistema non si sta adagiando, ha fatto una scelta: si posiziona lì. Non vogliono essere scalate, non vogliono andare all’estero, non vogliono quotarsi in Borsa. Vogliono essere acquistate o vivere all’interno di una filiera», afferma Ferretti.

Non è un limite, ma una strategia. I fondatori italiani non sono “ragazzi” alla prima esperienza, ma professionisti che provengono da banche, assicurazioni o aziende fintech e che vogliono costruire piccole imprese solide da integrare nei distretti industriali.

Una fintech americana punta a dominare il mercato globale e a quotarsi. Una fintech italiana punta a diventare un fornitore indispensabile per un settore: una tecnologia che una banca, un’assicurazione o un grande player sceglie di integrare stabilmente.

I numeri del modello italiano coincidono con i distretti industriali

Ferretti traccia un parallelo illuminante: «Se invece del Fintech guardate a qualsiasi distretto industriale italiano, i numeri sono gli stessi. Togliete “Fintech” e mettete la meccanica bergamasca o i calzaturifici marchigiani. È identico».

La revenue mediana di una fintech italiana è di 700mila euro. Un valore considerato “insufficiente” in ottica americana, ma perfettamente coerente con la scala delle PMI di filiera che hanno costruito il Made in Italy.

«Non hanno bisogno di andare fuori. È la grande banca che va da loro, perché ha bisogno della loro tecnologia», osserva Ferretti.

Il paradigma si rovescia: nel modello italiano è l’incumbent che cerca la startup, non il contrario.

Perché il venture capital americano non funziona in Italia

Il Venture Capital statunitense si fonda su un principio statistico: investire in 10 startup, farne fallire 9 e puntare su quella che ripaga tutto. Ferretti lo sintetizza così: «Loro cosa hanno in testa? Ne compro dieci, nove falliscono, quella che va bene mi deve ripagare le altre nove. Qui non funziona così. Non te ne fallisce nessuna».

In Italia, se investi in 10 fintech, probabilmente sopravvivono tutte — ma nessuna diventa un unicorno. È un modello di sostenibilità, non di iper-crescita.

Di conseguenza, la matematica del VC americano non regge: il rendimento atteso non è esplosivo, ma costante.

«Dobbiamo ripensare tutto il modello finanziario», afferma Ferretti. «Le banche devono stimolare la collaborazione e far crescere i CVC, i Corporate Venture Capital, che hanno un’ottica strategica».

Il CVC, a differenza del VC speculativo, non cerca il moltiplicatore finanziario ma l’integrazione tecnologica: investe per portare innovazione dentro l’organizzazione madre.

Il parallelo con il Made in Italy: non è debolezza, è forza

Ferretti allarga la prospettiva storica: «Sessant’anni fa abbiamo creato il Made in Italy: agrifood, fashion, meccanica. Questa è la nuova generazione di imprenditoria italiana».

Il Made in Italy non nacque da unicorni, ma da migliaia di piccole aziende specializzate, spesso familiari, concentrate in distretti territoriali e con competenze condivise.

Oggi il fintech italiano sta ripercorrendo quella traiettoria: non produce giganti globali, ma una rete diffusa di PMI tecnologiche che, insieme, formano il nuovo tessuto competitivo nazionale.

È un modello più lento ma più stabile, meno spettacolare ma più radicato.

Ferretti invita infine università, consulenti e investitori a cambiare prospettiva: «Andate a chiedere alle startup cosa vogliono fare da grandi: se si sentono più piccole imprese integrate nelle filiere Insurance o Wealth Management, piuttosto che aziende da 20 milioni di raccolta. Capire cosa vogliono davvero è il primo passo per scardinare il dibattito e costruire strumenti di finanziamento adatti a loro».

Venture Building: la via italiana alla crescita

In questo contesto, il Venture Building rappresenta l’evoluzione naturale del modello italiano.

Non è il venture capital tradizionale che finanzia e aspetta il ritorno. È un metodo di co-costruzione, in cui una banca, un’assicurazione o un grande gruppo tecnologico crea internamente nuove imprese, condividendo risorse, competenze e mercato.

È la formula che consente di crescere in modo sostenibile, senza dipendere da investitori speculativi.

«Non possiamo approcciarla come le startup di Palo Alto o Singapore. È un altro mondo, un altro sistema, con deregolamentazione spinta», conclude Ferretti.

L’Italia non ha (e non vuole avere) quella deregolamentazione. E forse, proprio per questo, il suo modello funziona meglio sul lungo periodo: non crea unicorni, ma imprese solide, integrate e capaci di durare.

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