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L’open innovation al centro delle aziende italiane: 4 modelli applicativi



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I manager di Philip Morris MTB, Dinova, Chiesi e Barilla spiegano come l’open innovation stia cambiando il modo di innovare in azienda. Dalle call for solution alle mentorship al co-design, ecco le applicazioni in 4 settori diversi: tecnologico, manifatturiero, farmaceutico e alimentare

Pubblicato il 7 nov 2025



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L’open innovation è ormai matura: da tendenza, si è evoluta ormai da anni in un metodo di lavoro che sta ridefinendo la cultura industriale e la gestione della ricerca. Durante la celebrazione dei 25 anni di Almacube, il 20 ottobre 2025 a Bologna, il panel “Open Innovation: orientarsi tra needs aziendali e modelli applicativi” ha riunito quattro voci rappresentative di settori diversi — alimentare, farmaceutico, manifatturiero e tecnologico — per raccontare come la open innovation sia diventata un elemento strutturale nei processi di sviluppo. Moderato dal professore Matteo Vignoli dell’Università di Bologna, il confronto ha mostrato quanto la collaborazione tra imprese, startup e università stia diventando il terreno più fertile per la competitività.

Oltre il modello chiuso: la cultura della collaborazione

Aprendo il dibattito, Matteo Vignoli ha posto una domanda chiave: come si integra, nella pratica, la conoscenza prodotta all’esterno dell’azienda? Matteo Zompa, director of manufacturing di Philip Morris MTB, ha raccontato un’esperienza concreta di collaborazione. “Siamo alla terza edizione della nostra Call for Innovation e ci appoggiamo ad Almacube per applicare il modello outside-in. Nell’ultima edizione, il 50% delle innovazioni è stato effettivamente implementato e scalato a livello di stabilimento”.

L’esempio di Philip Morris dimostra come la open innovation funzioni quando diventa parte della routine industriale e non un progetto isolato. Le call periodiche, la selezione di soluzioni da partner esterni e la loro integrazione nei processi produttivi sono strumenti che permettono di mantenere un ritmo di innovazione costante. La collaborazione con un incubatore accademico, in questo caso, consente di coniugare competenze scientifiche e applicazioni industriali, riducendo i tempi di trasferimento tecnologico.

Innovare dall’interno: il modello “AI first” di Dinova

Un approccio complementare è quello illustrato da Cristiano Boscato, amministratore delegato di Dinova, azienda specializzata in software, cyber security e intelligenza artificiale. “Abbiamo bisogno di diventare un’azienda AI first, prima di tutto come mentalità”, ha spiegato. Per farlo, Dinova ha introdotto strumenti partecipativi che coinvolgono direttamente i dipendenti: “Abbiamo lanciato una call for ideas aperta a tutte le persone dell’azienda e organizziamo learning lunch dove offriamo la pizza e condividiamo nuove idee”.

L’immagine informale non deve trarre in inganno: dietro questi momenti di condivisione c’è una strategia precisa per stimolare la creatività diffusa. La open innovation, in questo caso, si manifesta come apertura interna, un processo che parte dai team e mira a sviluppare nuove soluzioni a partire dall’esperienza quotidiana. “Per innovare bisogna imparare a parlare la lingua dell’azienda”, ha aggiunto Boscato, “e questo significa saper tradurre le idee in numeri, risultati e piccoli esperimenti a budget ridotto”. La capacità di essere pragmatici diventa quindi un prerequisito per portare in azienda l’innovazione a impatto reale.

Mentorship e valore condiviso nel modello Chiesi

L’esperienza del gruppo farmaceutico Chiesi, raccontata da Fabrizio Conicella, vicepresidente del Center of Open Innovation & Competence, introduce un’altra dimensione: la collaborazione continuativa con l’ecosistema. “Affrontiamo la open innovation seguendo uno dei valori chiave dell’azienda: il valore condiviso. Per noi significa agire come partner, non come compratori”, ha spiegato.

Chiesi applica un modello di “mentorship continua”, che coinvolge startup e centri di ricerca in un dialogo costante. “Abbiamo iniziative in corso negli Stati Uniti, in Europa e in Cina. L’obiettivo è creare percorsi di proof of concept gestiti anche a distanza, in modo efficiente e coerente con le nostre strategie globali.” La filosofia del valore condiviso si traduce in una forma di cooperazione che mette al centro la sostenibilità reciproca: le imprese partner crescono insieme, e le competenze sviluppate all’esterno vengono integrate senza annullare la specificità di ciascun attore.

Call for Solution e co-design nel food system

Nel settore alimentare, la open innovation si declina in un rapporto diretto con startup e team di ricerca. Claudia Berti, head of open innovation di Barilla, ha raccontato come l’azienda abbia avviato sei edizioni del programma Good Food Makers, culminate in un’edizione speciale chiamata “Ecosystem”. “Abbiamo lanciato una Call for Solution e oggi siamo arrivati alla scelta dei vincitori. Nei prossimi giorni inizieremo i kickoff con il supporto dei coach di Almacube per avviare il processo di co-design”, ha spiegato.

L’approccio di Barilla evidenzia la dimensione operativa della open innovation, dove le idee esterne vengono integrate nei processi di sviluppo di prodotto. L’azienda non si limita a finanziare le startup selezionate, ma partecipa al disegno congiunto delle soluzioni, condividendo competenze e know-how. Il risultato è un modello di collaborazione che unisce metodo industriale e creatività imprenditoriale.

Diversità, frizione e apprendimento

Nella parte conclusiva del panel, i relatori hanno concordato su un punto: la open innovation funziona solo se accetta la complessità. “Io insisterei sulla diversità perché a me la diversità diverte”, ha affermato Conicella, “ed è proprio questa esposizione tra culture diverse che genera le frizioni più utili alla crescita”. Secondo Boscato, queste “frizioni salutari” costringono le aziende a ridefinire i propri paradigmi e ad abbandonare logiche di controllo a favore di modelli collaborativi.

Claudia Berti ha ripreso il concetto, sottolineando come “andare fuori, parlare di innovazione aperta e confrontarsi con realtà diverse serva anche a ossigenarsi”. La contaminazione, dunque, non è un effetto collaterale ma una condizione necessaria per mantenere vivo il processo innovativo.

Le esperienze raccontate mostrano come la open innovation stia evolvendo da iniziativa sperimentale a infrastruttura strategica delle imprese. Dalla manifattura al digitale, dal farmaceutico al food, le aziende italiane stanno costruendo reti di collaborazione che non si limitano alla condivisione di idee, ma producono conoscenza, competenze e valore economico.

Un ecosistema che cresce

Il panel ha confermato il ruolo di Almacube come piattaforma di connessione tra università, startup e grandi imprese, un punto di incontro che facilita la traduzione dei bisogni industriali in progetti concreti. L’open innovation non è più un esercizio teorico, ma un linguaggio condiviso tra attori diversi che operano per obiettivi comuni: migliorare l’efficienza, sperimentare nuovi modelli e generare impatto.

Nel contesto bolognese, questa evoluzione trova terreno fertile in un ecosistema che unisce ricerca scientifica, capitale umano e cultura d’impresa. La sfida dei prossimi anni sarà mantenere questo equilibrio, trasformando la collaborazione in un processo continuo capace di anticipare i bisogni dei mercati e di tradurre la conoscenza in crescita sostenibile.

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