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Incubatori e acceleratori, come si stanno evolvendo: le esperienze



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La trasformazione del modello di impresa innovativa passa anche dalla ridefinizione del ruolo degli incubatori e acceleratori di startup. Ne parlano 4 protagonisti, a vario titolo, di queste realtà dove si formano le aziende del domani

Pubblicato il 7 nov 2025



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La trasformazione del modello di impresa innovativa passa anche dalla ridefinizione del ruolo degli incubatori di startup. A Bologna, durante la celebrazione dei 25 anni di Almacube tenutasi il 20 ottobre 2025 al DAMA Tecnopolo Data Manifattura, un panel dedicato a “Incubatori e acceleratori equity-free ed equity-based” ha messo a confronto esperienze e visioni di chi opera ogni giorno nell’ecosistema dell’innovazione. Dalle università ai fondi di investimento, dalle startup deep tech agli studi legali specializzati in proprietà intellettuale, il dibattito ha restituito un’immagine chiara: non esiste un unico modello vincente, ma un equilibrio tra formazione, capitale e tutela dell’innovazione.

L’incubatore come scuola d’impresa

Il confronto si è aperto con un intervento di Timothy O’Connell (nella foto), program coordinator di H-FARM, che ha gestito oltre 25 programmi di accelerazione e più di 300 investimenti in startup. O’Connell ha ricordato che “gli incubatori svolgono un ruolo cruciale nella fase iniziale di sviluppo di un progetto, quando serve ancora formazione e accompagnamento più che capitale”. Gli acceleratori, invece, rappresentano una fase successiva: “Sono modelli finanziati dal ritorno sugli investimenti e puntano a scalare, non solo a formare”.

Questa distinzione, però, non è netta. Molti incubatori di startup oggi offrono anche servizi tipici dell’accelerazione, come la connessione con fondi o programmi di internazionalizzazione. O’Connell ha evidenziato l’importanza di “creare legami forti con il mondo industriale e con gli investitori globali, per evitare che i progetti nati in Italia restino confinati a livello locale”.

Il modello citato come riferimento resta quello di Y Combinator, che ha definito la logica dell’accelerazione moderna, ma O’Connell ha chiarito che “in Europa, e soprattutto in Italia, l’elemento formativo resta fondamentale. Qui serve ancora costruire una cultura dell’imprenditorialità diffusa”.

L’incubazione come leva culturale

Fabio Nalucci (nella foto), fondatore e CEO di FNDX, con un passato da imprenditore seriale e una lunga esperienza in programmi di corporate innovation, ha sottolineato la funzione “educativa” degli incubatori. “L’incubatore deve mettere i ricercatori nelle condizioni di capire cosa significa fare impresa. È quasi una funzione istituzionale”.

Per Nalucci, il problema non è tanto la mancanza di idee quanto la difficoltà di tradurle in modelli sostenibili. Gli incubatori di startup diventano quindi un ponte tra ricerca e mercato, “un contesto protetto dove si può sbagliare e imparare prima di affrontare la competizione reale”.

Il manager ha poi annunciato la nascita di un nuovo veicolo di investimento promosso da FNDX per supportare i futuri programmi di incubazione di Almacube: “Vogliamo creare un corner investor capace di attrarre capitali e competenze per accompagnare la crescita delle startup deep tech”. L’obiettivo è combinare la dimensione educativa con quella finanziaria, rendendo il percorso più lineare tra le fasi di incubazione e accelerazione.

Il punto di vista delle startup

Nel dibattito è intervenuta anche Camilla Conti (nella foto), cofondatrice e COO di Adaptronics, startup nata come spin-off dell’Università di Bologna nel 2022. Conti ha raccontato l’esperienza del suo team in diversi programmi di incubazione e accelerazione, dal G-Factor di Fondazione Golinelli a Up to Stars di Intesa Sanpaolo, fino a Unicredit Start Lab e al Creative Destruction Lab.

“Gli incubatori fanno una funzione quasi sociale”, ha osservato. “Danno formazione a chi proviene dal mondo accademico e non ha ancora dimestichezza con la logica imprenditoriale. Poi, quando la startup cresce, servono programmi più maturi, anche equity-based, che aiutino a rafforzare la governance e la proprietà intellettuale”.

Per una realtà deep tech come Adaptronics, la tutela dell’IP è un elemento determinante. “Nel nostro percorso l’IP è diventata un asset sempre più forte. I riconoscimenti e le referenze che ci hanno permesso di crescere sono arrivati da università, incubatori tecnici e anche da enti come l’Agenzia Spaziale Europea”, ha spiegato Conti.

Il suo intervento ha evidenziato come gli incubatori di startup non siano solo spazi di crescita, ma anche snodi di legittimazione e visibilità all’interno dell’ecosistema. La reputazione del programma, infatti, influenza direttamente la credibilità della startup nei confronti degli investitori.

Proprietà intellettuale e gestione del rischio

Luca Scipioni (nella foto), European e Italian Patent Attorney di Bugnion, ha introdotto nel dibattito il punto di vista della tutela giuridica, chiarendo come la gestione della proprietà intellettuale sia “una variabile di controllo” nella strategia di crescita. “L’IP non è solo una protezione legale, ma uno strumento di valutazione del rischio e del valore. Nei programmi equity-based diventa un fattore decisivo: un investitore vuole sapere che la startup può operare senza violare diritti di terzi”.

Scipioni ha citato la Freedom to Operate (FTO) come fase critica del percorso di validazione tecnologica. “Non è obbligatoria nelle prime fasi di incubazione, ma diventa essenziale quando si entra in un percorso di investimento”. La capacità di gestire in modo corretto la proprietà intellettuale distingue le startup in grado di attrarre capitali da quelle che rimangono bloccate nella fase sperimentale.

“Ogni attività di sviluppo interno”, ha aggiunto, “deve far capo a uno strumento di tutela. È un linguaggio che le imprese devono imparare presto, se vogliono competere nei mercati internazionali”.

Nuove metriche per misurare il valore

Nel corso del confronto è emersa una riflessione condivisa: la necessità di ridefinire le metriche di successo degli incubatori di startup. Non conta solo il numero di imprese fondate o di round di investimento chiusi, ma la capacità di generare cultura imprenditoriale e connessioni durature tra ricerca, impresa e investitori.

O’Connell ha sottolineato che “la qualità del programma è la vera discriminante: bisogna guardare alla specializzazione, alla rete di mentor e alla capacità di costruire relazioni internazionali”. Anche Nalucci ha ribadito l’importanza della continuità: “Non possiamo considerare l’incubatore come un contenitore a sé. Deve essere parte di una filiera che accompagna le startup fino alla crescita industriale”.

Da questo punto di vista, l’esperienza di Almacube, che negli ultimi anni ha sviluppato una business unit dedicata all’integrazione tra startup e grandi imprese, rappresenta un laboratorio di riferimento per l’ecosistema italiano. L’approccio misto tra equity-free e equity-based si sta dimostrando efficace nel bilanciare formazione e sostenibilità economica.

Dal modello accademico al mercato

Il panel si è chiuso con una considerazione condivisa tra i relatori: gli incubatori di startup non sono più soltanto luoghi di sperimentazione, ma nodi strategici in grado di orientare le politiche industriali e di innovazione. La loro evoluzione, dalla funzione didattica a quella di investimento, riflette il percorso di maturazione del sistema italiano dell’innovazione.

La sfida ora è consolidare un modello che permetta di far crescere progetti nati nei laboratori universitari fino alla dimensione internazionale, senza disperdere competenze né capitali. In questo processo, la collaborazione tra università, imprese, enti finanziari e consulenti legali si rivela la condizione necessaria per trasformare la ricerca in valore concreto e duraturo.

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