L’analisi

Prima generazione o scalabile? Come riconoscere le start up

Per evitare che le neo-imprese mandino in fumo gli investimenti ricevuti, bisogna riconoscere le idee innovative che hanno più possibilità di successo. Per farlo, basta analizzare i profili di start up rilevati da Mind the Bridge su un campione di 108 start up

Pubblicato il 11 Nov 2013

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La chiamano già la “bolla delle start up”. Molte delle nuove realtà imprenditoriali italiane rischiano di mandare in fumo gli investimenti ricevuti finora se non riusciranno a monetizzare con “exit” importanti (in genere, la vendita della start up a un’altra azienda o la quotazione in borsa). Questa almeno è la sensazione che hanno gli investitori presenti al Venture Camp organizzato a Milano da Mind the Bridge, l’acceleratore e fondo di investimento fondato a San Francisco dall’ex Googler Marco Marinucci.

Per evitare lo scoppio della bolla, diventa quindi essenziale riconoscere quali tipi di idee innovative hanno più possibilità di successo. Come orientarsi? Un aiuto può arrivare dai tre profili di start up – Prima generazione, Nate dalla crisi e Scalabili – rilevati da un’indagine condotta da Mind the Bridge su un campione di 108 start up e 254 imprenditori.

Le start up di prima generazione, che rappresentano il 20% delle nuove imprese ad alto potenziale, sono fondate da giovani startupper, spesso alla prima esperienza lavorativa, che hanno un background culturale tecnico-scientifico molto marcato. Si tratta essenzialmente di spin-off accademici che raccolgono finanziamenti modesti (tra 1 e 10 mila euro nel 38% dei casi) soprattutto tra i co-founder. In alcuni casi (il 24%) il fondatore è uno solo. Questo tipo di start up opera soprattutto in settori ad alta tecnologia, a dimostrazione del fatto che la formazione universitaria dei fondatori incide moltissimo sull’idea di business.
Alla forte competenza in ambito tecnico fa però da contraltare una bassa preparazione in ambito manageriale e un’assenza di esperienze professionali precedenti che influisce in negativo sulla capacità di attrarre finanziamenti più strutturati. Nel breve periodo, le start up di prima generazione sono le meno attrezzate per fare il salto di qualità. Ma un merito ce l’hanno: il fare impresa diventa una modalità di ingresso nel mondo del lavoro. In altre parole, fanno nascere nuovi imprenditori che, anche in caso di fallimento della prima esperienza, potranno dare vita a progetti di impresa importanti per il Paese.

La start up nate dalla crisi (born into crisis), la maggior parte del campione (il 50%), sono fondate da lavoratori che diventano imprenditori. Il modello, in Italia, ha funzionato per decenni: operai specializzati e impiegati che puntano sulla propria esperienza professionale per creare un’attività in proprio, generalmente nello stesso settore in cui si è fatto il proprio percorso lavorativo. Molto spesso, quindi, i membri del team (nel 20% dei quali è presente almeno una co-founder donna) vantano lunghi periodi di occupazione ma non sempre possono contare su un’attitudine imprenditoriale vera e propria: in molti casi, la molla è la voglia di affrancarsi dal datore di lavoro o il desiderio di riscattarsi dalla perdita del proprio impiego. Ma si sa, non sempre è sufficiente un’insoddisfazione per trasformare una persona in un imprenditore. Una start up che ha un dna del genere ha purtroppo alti di mortalità e ridotte capacità di raccogliere finanziamenti da fonti esterne. Solo il 44% ci riesce e, quando ce la fa, la somma che riesce a ottenere oscilla nella maggior parte dei casi tra 1 e 25 mila euro.

E veniamo al terzo profilo, quello che ha più probabilità di attirare capitali e di fare successo: le start up scalabili. Rappresentano il 30% del campione preso in esame da Mind the Bridge e sono le imprese create da startupper con una formazione universitaria di altissimo livello: il 13% dei founder ha conseguito un dottorato di ricerca e uno su dieci è in possesso di un titolo MBA (master in business administration). Si tratta quindi di professionisti con forte competenza manageriale (i laureati in economia aziendale sono oltre la metà) e con una solida esperienza lavorativa, anche internazionale, alle spalle sia all’interno delle aziende che nel mondo della consulenza. I team di queste start up sono numerosi (il 22% composto da più di 4 persone) e con membri che mixano competenze tecniche e gestionali: l’equilibrio che sembra essere alla base dell’impresa con speranze di crescita. Naturalmente, la start up scalabile è quella che riesce ad attrarre più capitali dall’esterno: il 30% ha ricevuto più di 200 mila Euro, il 50% più di 100 mila e le fonti di finanziamento sono tra le più strutturate: seed fund, venture capitalist, fondazioni, acceleratori. Sono loro insomma che hanno più chance di sfondare nell’immediato, anche se solo poche riescono davvero a diventare imprese protagoniste della sfida globale.

E se è necessario capire come individuare le start up più promettenti, dall’altra parte è altrettanto importante che chi investe abbia tutte le carte in regola per farlo. Mind the Bridge propone una soluzione anche in questo ambito con la Angel School, una scuola per investitori che si pone l’obiettivo di fornire ai professionisti del settore una serie di indicazioni utili per individuare i progetti imprenditoriali italiani più meritevoli di ricevere investimenti.

La scuola è a San Francisco, nella sede dell’acceleratore, e consiste in un modulo intensivo della durata di una settimana, con 20 ore di insegnamento teorico, 20 ore di workshop e incontri con angel e investitori della Silicon Valley e 20 ore dedicate al networking per trovare co-finanziatori e partnership. Possono iscriversi, inviando profilo e lettera motivazionale ad angelscrum@mindthebridge.org, investitori che abbiano già esperienze con startup, imprenditori, manager, dirigenti di Pmi o altre figure professionali che vogliano diversificare i propri investimenti. L’unico requisito per tutti, naturalmente, è la conoscenza dell’inglese.

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