“Resto Chief Innovation Officer nel cuore, ma oggi ho la responsabilità dell’intera azienda e molte cose cambiano. È un bagno di realtà, che impone pragmatismo e visione insieme”. Ma un bagno che si fa con strumenti e modalità di pensiero propri di chi fa innovazione. È la sintesi, secondo Matteo Mingardi, di un passaggio di ruolo sempre più frequente e significativo (come dicono i casi di Fabio Tentori e Stefano Bison).
Dopo otto anni in Pelliconi come Chief Innovation Officer, da tre mesi ha assunto la guida di Nespak, azienda manifatturiera del gruppo francese Guillin Group, leader europea che opera nel mondo del packaging alimentare con quattro business unit, food service, fresh product e macchine per la ristorazione collettiva.
In questa intervista a EconomyUp racconta cosa significa portare un mindset innovativo alla guida di un’organizzazione complessa, quali sfide comporta e come si costruisce una cultura del cambiamento in contesti dove l’innovazione non è ancora una pratica diffusa.
Che cosa ti ha spinto a fare il salto da Chief Innovation Officer ad amministratore delegato, oltre la comprensibile opportunità di sviluppo professionale?
Quello che mi ha spinto è stata una sensazione precisa: da Chief Innovation Officer puoi gestire molte leve, ma non tutte. Lavori per trasformare, contaminare, portare nuovi mindset, ma non hai la possibilità di definire fino in fondo la traiettoria dell’azienda. Mi mancava quella responsabilità piena: decidere dove andare, in che modo e con quale ritmo. L’innovazione ha un impatto profondo, ma solo chi guida l’impresa può davvero indirizzarla
Cosa ti porti dell’esperienza nell’innovazione nel tuo nuovo ruolo?
Mi porto una visione perimetrale, contaminata. Chi viene dall’innovazione è abituato a farsi ispirare da contesti diversi, tecnologie nuove, dinamiche trasversali. Questo approccio aiuta a non rimanere prigionieri delle consuetudini. E poi c’è un altro aspetto fondamentale: la capacità di creare consenso. Come Chief Innovation Officer devi far accettare idee nuove, gestire resistenze, costruire coalizioni. Non puoi “comandare”. E questo ti educa a una leadership inclusiva, partecipativa. Ora che sono CEO, ho il “potere” di dire “si fa così”, ma preferisco costruire consenso, come ho sempre fatto.
Quindi l’innovazione prepara a Una leadership meno monocratica, più orizzontale…
Sì. Chi ha fatto innovazione sviluppa una leadership “acquisita”, che nasce dal riconoscimento degli altri, non dalla gerarchia. Devi essere credibile. E questo stile ti resta. Anche da CEO, continuo a considerare centrale il coinvolgimento delle persone. Le idee funzionano quando sono condivise. E la vera innovazione richiede questo tipo di partecipazione.
Da Pelliconi a Nespak di fatto sei rimasto nella manifattura. Perché è importante e quanto è urgente portare più innovazione nelle fabbriche?
È urgentissimo, ma spesso frainteso. Innovare in manifattura non significa solo introdurre nuove macchine. Quelle ci sono da anni. Il punto è: come le usi? Che processi costruisci attorno? Come gestisci la relazione con il cliente? In un mercato di commodity, come quello in cui operiamo, il prodotto è di fatto sostituibile. Quello che conta è l’esperienza complessiva che offri. La vera differenza la fa il contesto che crei attorno al prodotto, non il prodotto in sé.
Ci fai un esempio concreto?
Certo. Noi produciamo cestelle per prodotti freschi, ortofrutta e proteine. Ma perché fermarsi lì? Possiamo, ad esempio, guardare al mondo dell’agritech, molto interessante a livello europeo, con una logica di “servitizzazione”: unire prodotto e servizio in un ecosistema di valore condiviso. E questo approccio apre spazi enormi.
Quali resistenze si incontrano nel portare innovazione in contesti tradizionali?
Tre, principalmente. Primo: l’inerzia. Aziende come Nespack hanno 70 anni di storia, e spesso i sistemi in essere hanno funzionato bene. Perché cambiare? Secondo: la zona di comfort. Innovare significa esporsi, mettersi in discussione. Non tutti sono disposti a farlo. Terzo: l’overload informativo. Oggi siamo sommersi da tecnologie, tool, trend. Anche chi è esperto e abituato a confrontarsi con le tecnologie può sentirsi disorientato. E quando non capisci, tendi a prendere tempo e spesso finisci per fermarti.
Da CEO, come si affrontano queste resistenze?
Serve metodo. Io ho cominciato mettendo ordine. Ho lavorato sull’efficienza dei processi esistenti. Una volta sistemata la “stanza”, puoi cominciare a “ridecorarla”, cioè a esplorare nuove direzioni. Ma devi coinvolgere le persone, spiegare la visione, renderla comprensibile. Il cambiamento funziona solo se è percepito come concreto, realizzabile. Le persone ti seguono se vedono che le cose accadono
Qual è la posizione dell’innovazione quando ci si trova al posto di guida? Non sarà più centrale come per in CInO…
Resta centrale, ma in modo diverso. Prima dovevo “vendere” una visione. Ora devo portare risultati. È un passaggio necessario dall’essere “visionario” a diventare “pragmatico”. Il mio obiettivo per il 2026 è ampliare il perimetro dell’innovazione: non più solo materiali e prodotti, ma anche servizi e modelli di business.
L’open innovation è parte del progetto?
Sì. Aprirsi all’esterno è fondamentale: il valore che arriva dall’apertura è troppo importante per rinunciarvi. Per questo conto di poter ‘sfruttare’ il network che mi sono creato negli otto anni di lavoro in Pelliconi.
E l’innovazione interna? Come si attiva la creatività delle persone?
Appena arrivato, ho fatto un workshop con l’area industriale. Abbiamo usato il metodo dei “tre orizzonti”, post-it, partecipazione. Hanno capito che tutte le voci valgono, e sono nate moltissime idee. Le abbiamo valutate con gli strumenti dell’innovazione, per creare un portafoglio progetti. È stato anche un modo per motivare le persone, per dire: “sei parte del cambiamento”.
Quanto conta la sostenibilità nel vostro business?
È un driver essenziale. Lavoriamo nel packaging, e le normative europee impongono standard sempre più rigidi. Oggi il nostro packaging in PET contiene l’80% di materiale riciclato. Il gruppo ha acquisito aziende nel cartoncino, come Ciesse Paper in Italia. Ma c’è anche una responsabilità che possiamo definire culturale: secondo i dati di ProFood, l’associazione italiana dei produttori di imballaggi, oltre due terzi degli imballaggi utilizzati per frutta e verdura in Europa sono prodotti da aziende italiane. E in Italia il 50% del packaging plastico è già riciclabile, contro il 40% della media UE ed il 9% di quella mondiale. Eppure spesso si affrontano questi temi con isteria, non con razionalità. Noi vogliamo fare innovazione sostenibile, basata su dati, non su slogan
Un’ultima domanda. Guardandoti indietro, cosa vedi di diverso dalla poltrona di CEO?
Vedo i “no”, pochi in realtà ma ci sono stati, che ho ricevuto quando ero Chief Innovation Officer e oggi li capisco. So cosa vuol dire gestire priorità, bilanciare esigenze operative e visione strategica. È davvero un bagno di realtà. Ma è anche un’opportunità: posso usare ciò che ho imparato da CInO per costruire un’organizzazione più aperta, consapevole, capace di trasformarsi. È questa la vera sfida del mio ruolo oggi.