storia dell’innovazione

Disruptive innovation, rileggere Clay Christensen: la teoria che ha ridefinito il management moderno



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La teoria della disruptive innovation di Clayton Christensen ha influenzato manager, aziende e interi settori. Riascoltare la storica intervista del 2012 pubblicata da Harvard Business Review permette di ricostruire il senso originale del concetto e il modo in cui lo spiegava

Pubblicato il 26 nov 2025



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La teoria della disruptive innovation è oggi citata ovunque: nel dibattito manageriale, nel linguaggio delle startup, nelle strategie corporate. Ma il concetto nasce con un significato preciso, definito e rigoroso, formulato da Clayton Christensen e presentato in numerose occasioni pubbliche, tra cui un’intervista del 2012 realizzata da Harvard Business Review. Rileggere quel confronto permette di ritornare all’interpretazione originale, ricostruendo come Christensen spiegava la dinamica che ha ridefinito l’evoluzione dei settori industriali negli ultimi decenni. Ma intanto ricordiamo chi era e cosa ha fatto.

Chi era Clayton Christensen

Clayton Christensen (1952-2020) è stato un economista e professore di Harvard Business School, considerato uno dei massimi pensatori mondiali sull’innovazione. È noto soprattutto, come detto, per aver elaborato la teoria della disruptive innovation, introdotta nel libro del 1997 The Innovator’s Dilemma, diventato un classico del management. Secondo The Economist è stato “il più influente pensatore di management del suo tempo” e le sue idee hanno plasmato il modo in cui imprese e startup interpretano il cambiamento tecnologico.
Alla HBS ricopriva la cattedra di Kim B. Clark Professor of Business Administration ed è stato autore di una decina di libri, tra cui The Innovator’s Dilemma, The Innovator’s Solution, Disrupting Class, The Innovator’s Prescription e How Will You Measure Your Life?.
Ha contribuito anche al metodo Jobs to Be Done, che invita le aziende a progettare prodotti e servizi partendo dal “lavoro” che il cliente vuole svolgere.
Imprenditore oltre che teorico, ha co-fondato Innosight e il fondo Rose Park Advisors, dedicati a strategie e investimenti ispirati alle sue ricerche.
È stato più volte ai vertici del ranking Thinkers50, che lo ha riconosciuto come uno dei pensatori di business più influenti degli ultimi decenni.
Profondamente religioso, era membro attivo della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni e ha spesso intrecciato riflessioni su etica, senso della vita e successo professionale. Negli ultimi anni ha affrontato seri problemi di salute, tra tumore e ictus, continuando però a insegnare e scrivere.
È morto il 23 gennaio 2020 a 67 anni, lasciando un’eredità intellettuale che continua a orientare manager, innovatori e studiosi in tutto il mondo.

Che cos’è davvero la disruptive innovation secondo Christensen

Nell’intervista del 2012, Christensen chiariva subito che una disruptive innovation non è un’innovazione rivoluzionaria. Non equivale a sviluppare “prodotti molto migliori”, né coincide con un balzo tecnologico destinato ai clienti più esigenti. La sua definizione è al contrario molto specifica: “trasforma un prodotto che storicamente era così costoso e complicato che solo poche persone con molti soldi e molta abilità potevano accedervi” rendendolo accessibile a una popolazione molto più vasta.

La democratizzazione dell’accesso è il cuore della teoria. La disruptive innovation parte dal basso, si rivolge a non-clienti, e mette sul mercato soluzioni più semplici, più economiche, spesso meno performanti secondo i criteri tradizionali. È questo spostamento verso fasce di consumo prima escluse a definire la natura dirompente del fenomeno.

Christensen ricorreva spesso all’evoluzione dell’informatica per mostrare la forza della teoria. I computer mainframe costavano “diversi milioni di dollari” e richiedevano anni di formazione: solo grandi aziende e università potevano permetterseli. Il passaggio da mainframe a mini, poi a desktop, laptop e infine smartphone non è stato semplicemente un miglioramento tecnologico, ma la progressiva espansione dell’accesso a strumenti prima riservati a pochissimi. L’arrivo dei personal computer non ha sfidato i mainframe sul loro terreno: ha aperto un nuovo mercato. È qui che la definizione di Christensen diventa particolarmente significativa, perché mostra come la disruption cambi il pubblico, e non solo il prodotto.

QUI il video completo

Disruptive Innovation Explained

Il dilemma dell’innovatore: quando migliorare non basta più

Alla base della disruptive innovation c’è una tensione strategica che Christensen ha codificato nel suo celebre Innovator’s Dilemma (1997). Nell’intervista spiegava come questo dilemma nasca da scelte apparentemente razionali: “ogni azienda, ogni giorno”, diceva, deve decidere se creare prodotti migliori, da vendere a prezzi più elevati ai propri clienti migliori, oppure se investire in soluzioni che appaiono meno redditizie, rivolte a mercati ancora inesplorati.

Secondo Christensen, la disruptive innovation spinge verso “nuovi mercati—persone che non sono i tuoi clienti”, con prodotti che “i tuoi attuali clienti non comprerebbero”. La difficoltà strategica è evidente: perché mai un’azienda consolidata dovrebbe investire in soluzioni con margini più bassi, destinate a pubblici marginali o percepite come inferiori?

Il rischio, secondo Christensen, è che scegliendo sempre di migliorare i prodotti esistenti ci si posizioni sistematicamente nella fascia alta del mercato, lasciando scoperta la base, dove emergono nuovi concorrenti. Lo si vede nella sua analisi dei cicli industriali dell’automotive. General Motors e Ford hanno faticato a rispondere all’ingresso di Toyota dal basso. Toyota a sua volta si è trovata nella stessa posizione con l’avanzata di Hyundai e Kia, mentre i produttori coreani osservano l’arrivo di nuove aziende cinesi. Ogni ondata segue la stessa logica: chi cresce scala la qualità e i margini; chi arriva dal basso occupa il segmento lasciato scoperto. Questo processo, spiegava Christensen, non dipende da una distrazione dei grandi player, ma dalla loro struttura di incentivi interni.

Jobs, Grove e il ruolo della teoria nella lettura del futuro

La forza della disruptive innovation non risiede solo nella definizione, ma nella capacità di guidare il pensiero strategico. L’intervista del 2012 ricorda come la teoria abbia influenzato figure di primo piano della tecnologia. Christensen è citato nella biografia di Steve Jobs, dove si afferma che The Innovator’s Dilemma ha avuto un ruolo nei ragionamenti sulle prime strategie di Apple. Ma è l’incontro con Andy Grove, allora alla guida di Intel, a offrire uno dei passaggi più interessanti della narrazione.

Christensen racconta di essere stato chiamato da Grove che, con franchezza, gli disse: “Sono un uomo impegnato. Non ho tempo di leggere fesserie da accademici”. Voleva sapere cosa la teoria significasse per Intel. Christensen rispose che non poteva “avere un’opinione su Intel”, ma poteva spiegare il funzionamento della teoria. Grove inizialmente ascoltò con impazienza, interrompendolo dopo pochi minuti: “Ho capito la tua stupida teoria. Dicci cosa significa per Intel”. Christensen insistette per completare la spiegazione attraverso il caso dei mini-mills nell’industria dell’acciaio, descrivendo come un’innovazione low-end avesse progressivamente scalato l’intero settore.

Solo a quel punto Grove collegò la teoria alla realtà della propria azienda, identificando due concorrenti emergenti che stavano salendo dal basso. La conclusione, come ricostruisce Christensen, fu formulata direttamente da Grove: Intel doveva “scendere e non permettere loro di salire”.

Quel dialogo, raccontato dallo stesso Christensen, mostra il valore analitico della teoria e illustra uno dei passaggi più densi dell’intervista: “Se fossi stato indotto a dire a Andy Grove cosa dovesse fare, sarei stato annientato”. La forza della teoria, per Christensen, stava nel fornire una lente interpretativa, non una soluzione prescrittiva.

“I dati esistono solo sul passato”: perché la teoria è uno strumento previsionale

Uno dei passaggi più citati di Christensen è una riflessione che sintetizza la funzione della teoria nella gestione aziendale. Durante l’intervista spiegava che i dati a disposizione di manager e analisti riguardano sempre il passato. Se si guarda al futuro unicamente attraverso evidenze storiche si rischia, secondo Christensen, di “agire quando il gioco è finito”. Le imprese, affermava, devono imparare a usare la teoria come strumento per osservare in anticipo le dinamiche emergenti.

È un punto cruciale: ogni decisione, sosteneva, si basa su una teoria, anche quando non è esplicitata. Insegnare ai manager come guardare attraverso queste lenti permette di “vedere il futuro molto chiaramente”. In questo senso la disruptive innovation diventa anche un metodo di lettura, un modello per interpretare il movimento dei competitor e il modo in cui nuovi player possono erodere una parte del mercato.

La trascrizione della conversazione con Harvard Business Review offre quindi non solo le basi della definizione, ma un quadro più ampio sull’approccio di Christensen all’analisi strategica: un invito a usare modelli teorici per comprendere fenomeni che i dati storici non sono ancora in grado di rivelare.

Rileggere Christensen oggi per recuperare il significato della disruptive innovation

A più di dieci anni da quella intervista e a diversi anni dalla scomparsa di Christensen, il suo pensiero rimane centrale nello studio dei processi di innovazione. Come evidenziano le sue parole nell’incontro del 2012, la disruptive innovation non è un’etichetta da applicare retroattivamente a ogni nuovo prodotto, ma un fenomeno che segue dinamiche precise: nasce in mercati marginali, cresce su segmenti trascurati, scala man mano che migliora la propria proposta.

Rileggere quella conversazione consente di recuperare la definizione originaria e di distinguere la teoria dai molti fraintendimenti successivi, riportando il concetto alla sua funzione analitica e non promozionale. In questo senso, il contributo di Christensen continua a essere una delle chiavi fondamentali per interpretare l’evoluzione dei settori industriali e dei modelli di business contemporanei.

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