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Benessere psicologico dei founder: come affrontare lo “stress da startup”



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Cristina Arbini, Co-Founder di Pietro, Daniele Francescon, Co-Founder di Serenis, e Serena Candeo, CEO di Serendipity analizzano l’impatto psicologico del fare imprenditoria innovativa, tra discriminazioni percepite, gestione della responsabilità e genitorialità

Pubblicato il 18 dic 2025



benessere dei founder

Il benessere psicologico dei founder sta emergendo come uno dei temi meno visibili ma più strutturali dell’ecosistema startup. Dietro la retorica della crescita, dell’impatto e della resilienza, si concentrano infatti carichi emotivi, responsabilità economiche e pressioni personali che incidono profondamente sulla vita di chi fa impresa. È su questo nodo che si è concentrata la tavola rotonda che ha visto confrontarsi Cristina Arbini, Co-Founder di Pietro e Growth di promama, Daniele Francescon, Co-Founder di Serenis, e Serena Candeo, CEO di Serendipity, business coach e trainer in soft skills, nel corso del convegno Digital & Open Innovation 2026, tenutosi il 2 dicembre 2025.

Genitorialità e lavoro: una sfida più per i dipendenti che per i founder

Il confronto si apre con una riflessione sulla genitorialità. Arbini parte da una posizione controintuitiva: per la sua esperienza, la genitorialità rappresenta spesso una sfida più complessa per chi è dipendente che per chi fa impresa. Quando si diventa genitori all’interno di un’organizzazione, osserva, “può capitare che cambi lo sguardo su di te come dipendente da parte dell’azienda”, soprattutto quando si cerca di conciliare il ruolo professionale con quello genitoriale in modo attivo.

Nel lavoro con promama, Arbini racconta di aver osservato come il rientro al lavoro dopo la genitorialità coincida spesso con un cambiamento profondo della motivazione. Le persone tornano “con un desiderio di avere un impatto maggiore”, perché il tempo dedicato al lavoro diventa una variabile critica nell’economia quotidiana della vita. Questo cambiamento di prospettiva, secondo Arbini, può trasformare la genitorialità in un’opportunità, soprattutto per chi fa impresa e ha maggiore autonomia nel ridefinire priorità e modelli organizzativi.

Impresa e valori: l’opportunità di ripensare il lavoro

Per Arbini, fare impresa consente di impostare il lavoro in modo diverso, allineandolo a una scala di valori rinnovata. La possibilità di costruire contesti organizzativi che riconoscano il valore delle persone diventa un elemento chiave, soprattutto in settori in cui la produttività è spesso confusa con la disponibilità continua. Come osserva, è possibile “essere profittevoli e avere un impatto anche senza fare un milione di ore”, rimettendo in discussione modelli di lavoro che danno per scontata la reperibilità costante.

Il “fattore Italia” e la discriminazione nel fundraising

Il punto di vista di Daniele Francescon introduce una dimensione diversa, legata al rapporto con gli investitori e al contesto nazionale. Pur riconoscendo che l’età dei founder – nel suo caso più alta rispetto alla media – ha reso più semplice il dialogo con i fondi, Francescon sottolinea come il “fattore Italia” resti fortemente discriminante nel fundraising europeo.

Racconta di aver sentito più volte, anche in contesti informali, l’invito a “stay away from Italy”, un messaggio che pesa quando una startup sceglie di crescere rimanendo nel mercato domestico. Questo avviene nonostante mercati ampi e unit economics solidi: nel caso di Serenis, quello della psicoterapia è un mercato da oltre due miliardi di euro solo in Italia. Eppure, l’origine geografica continua a incidere sulla percezione del rischio.

Deal power e maturità dell’ecosistema

Per Francescon, il problema non è solo raccogliere capitali, ma farlo a condizioni sostenibili. “Gli investimenti ci sono, il problema è come riesci a portare a casa il deal”, osserva, introducendo il tema del deal power. La mancanza, nei fondi, di figure con esperienza imprenditoriale diretta viene indicata come un ulteriore limite dell’ecosistema: spesso chi valuta non ha mai vissuto in prima persona le dinamiche operative di una startup, rendendo il confronto più complesso e meno empatico.

Motivazioni intrinseche e stress cronico

La riflessione si sposta poi sul piano psicologico con l’intervento di Serena Candeo, che legge i dati da una prospettiva di psicologia del lavoro. Ciò che emerge con forza è che i founder sono motivati prevalentemente da ragioni intrinseche: responsabilità sociale, desiderio di impatto, senso di missione. Questo porta a un investimento personale molto elevato, che può tradursi in empowerment, ma anche in stress.

Nella ricerca citata durante la tavola rotonda, lo stress risulta la condizione più frequentemente indicata dai founder, più di ansia o depressione. Candeo osserva che lo stress, inizialmente positivo come spinta motivazionale, diventa problematico quando si cronicizza. Il dato più critico riguarda però le strategie di gestione: molti founder affrontano le difficoltà da soli o parlano con partner e amici, mentre raramente si rivolgono a professionisti.

Le molteplici cause dello stress

Secondo Candeo, lo stress dei founder non deriva mai da un solo fattore, ma da un “ecosistema di stressor”: responsabilità economica, rischio d’impresa, carichi di cura – che siano genitoriali o familiari – e pressione costante sulle decisioni. In questo contesto, la mancanza di strumenti strutturati per la gestione dello stress rappresenta un limite non solo individuale, ma sistemico.

La domanda finale che emerge dal confronto è netta: se il founder non ha le energie psicologiche per portare avanti la startup, chi può farlo al suo posto? La risposta implicita chiama in causa l’intero ecosistema, invitando a considerare il benessere dei founder come una variabile strutturale della sostenibilità imprenditoriale, non come un tema marginale.

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