Open innovation

Change management, che cos’è e perché è necessario per innovare

Blackberry ha toccato quota zero di mercato, ultimo dei colossi travolti dalla disruption. Per fronteggiarla il 42% delle organizzazioni con performance elevate si affida a tecniche e strumenti utili per comprendere e affrontare (in tempo) il cambiamento. Eppure il 50% dei programmi non ottiene ancora i risultati sperati

Pubblicato il 07 Mar 2017

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Pochi giorni fa si è chiusa un’era: Blackberry è precipitato al suo minimo storico toccando quota zero di mercato. Nel 2009, all’apice della popolarità, l’azienda canadese produttrice di dispositivi era riuscita a conquistare il 20% del mercato: uno smartphone su cinque era un Blackberry. È solo uno dei giganti dell’economia mondiale che hanno assistito al loro fallimento in pochi anni perché non hanno saputo adeguarsi ai velocissimi cambiamenti tecnologici e organizzativi. Tra questi Kodak, Polaroid e Blockbuster, solo per fare qualche nome. Una delle industrie che, al contrario, è in grado di trarre vantaggio dai nuovi scenari creati dalla disruption tecnologica è la change management industry. Proprio quella che dovrebbe aiutare le altre ad affrontare i cambiamenti e ad evolversi rapidamente per non rischiare di estinguersi. Ma cosa è esattamente il change management? Quanto incide realmente sull’andamento economico delle società delle quali si occupa? E sta davvero funzionando?

► LO SCENARIO

Il mondo dell’economia, così come quello della politica, sta entrando in una nuova era dominata dall’incertezza. Quelli che una volta erano leader di mercato rischiano una rapida fine perché non sono stati capaci di modernizzarsi o hanno perso terreno rispetto a competitor più pronti ad adeguarsi alle novità. Come ha detto a EconomyUp Solomon Darwin, direttore esecutivo del “Garwood Center for Corporate Innovation” dell’Università di Berkeley, in California, “una volta cresciute molte aziende perdono la capacità di innovare. Diventano come dinosauri o elefanti, non sono più agili come leopardi: non possono correre, non riescono a cambiare direzione. Perciò non sanno innovare velocemente come le più piccole né adattarsi ai cambiamenti ambientali e quindi perdono il vantaggio competitivo”.

L’open innovation spiegata da Solomon Darwin 

Secondo dati riportati da bcg.perspectives, piattaforma di The Boston Consulting Group, oggi le aziende hanno un tasso di mortalità più elevato rispetto al passato: un terzo delle public companies, le società ad azionariato diffuso, è destinato a scomparire entro i prossimi cinque anni. Questo processo è dovuto a un insieme di fattori: oltre alle conseguenze della disruption tecnologica, esistono oggettive difficoltà a fare previsioni economiche a medio e lungo termine, la globalizzazione ha rivoluzionato i mercati e la concorrenza si sta facendo sempre più agguerrita. In questo scenario in continuo mutamento, le risorse tradizionali come l’economia di scala o gli assetti proprietari non sono più in grado di generare valore o non sono più sostenibili. La priorità di molte aziende oggi è quella di adattarsi alle mutate condizioni per cercare di potenziare le performance o a volte semplicemente per sopravvivere. Parafrasando Darwin (non il Solomon di cui sopra, ma il padre della teoria sull’evoluzionismo), si può dire che non è il più forte della specie che sopravvive, ma quello che sa maggiormente adattarsi ai cambiamenti.

► A COSA SERVE LA CHANGE MANAGEMENT INDUSTRY 

Con il termine change management (traducibile approssimativamente in gestione del cambiamento), scrive Wikipedia, si intende un approccio strutturato al cambiamento negli individui, nei gruppi, nelle organizzazioni e nelle società che renda possibile (e/o pilota) la transizione da un assetto corrente ad un futuro assetto desiderato. Il change management, così come viene comunemente inteso, fornisce strumenti e processi per riconoscere e comprendere il cambiamento e gestire l’impatto umano di una transizione. Il concetto è stato elaborato per la prima volta da alcuni studiosi negli Stati Uniti negli anni Sessanta. Tuttavia è solo a partire dagli anni Ottanta che è entrato a far parte dei corsi di laurea ad indirizzo economico in Italia e nel mondo. In quel periodo alcune tra le più importanti società di consulenza hanno iniziato a ricercare e ad attuare nuovi “programmi” per aiutare i big a cavalcare il cambiamento. Tra i primi a servirsi del change management sono stati GE, Ford e AT&T. Negli anni Novanta, con il graduale avvento della globalizzazione, è stato in particolare il settore dell’IT a beneficiare su ampia scala dei programmi di change management. Tra i pionieri di questa disciplina c’è John Kotter, docente di leadership e professore emerito della Harvard Business School. Oltre a insegnare, ha dato vita a una società di consulenza e scritto numerosi libri. Il suo bestseller internazionale, Leading Change (1996), è considerato da molti l’opera basilare per chi opera nel campo del change management.

► UNA NUOVA PROFESSIONE

Il Change Agent, Agente di cambiamento, è una delle nuove professioni nate nell’ambito dell’open innovation. È focalizzato sulla parte di innovazione riguardante le Human Resources (HR). Ama diffondere la cultura dell’innovazione all’interno di una organizzazione e ha le caratteristiche necessarie per motivare le persone a cambiare. Il suo obiettivo è definire e implementare una strategia di trasformazione. Il principale compito che ha chi ricopre questo ruolo è mettere in piedi una struttura che supporti l’innovazione all’interno dell’azienda e allo stesso tempo assicurarsi che le principali figure “politiche” aziendali capiscano il valore del cambiamento in atto. Per ottenerne il supporto deve saperli guidare e motivare.

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► I NUMERI DEL CHANGE MANAGEMENT

Secondo dati raccolti da Statista e risalenti al 2014, basati su una ricerca condotta su oltre 2.500 responsabili di project management in tutto il mondo, il 42% delle organizzazioni con performance elevate ha messo in pratica programmi di change management, contro il 10% di quelle con basse prestazioni.

Sempre secondo dati internazionali riportati da Statista sulle pratiche più efficaci nel change management organizzativo, nel 2014 la maggioranza degli intervistati (68%) ha risposto che la pratica più efficace è stata la pianificazione di un efficace piano di comunicazione. Una quota che tuttavia non si discosta molto da quel 64% secondo il quale la best practice è stata l’esecuzione concreta dei piani di comunicazione. Infine per il 62% la migliore attività è stata l’identificazione dei benefici ricavabili dal cambiamento, la loro “misurazione” e la loro comunicazione.

Tuttavia, secondo bcg.perspectives, i programmi di change management non hanno avuto sufficiente successo. In base a dati riferiti dai Ceo delle aziende, circa il 50% di questi programmi non riesce a raggiungere gli obiettivi. E la cifra arriverebbe al 75% per quanto riguarda programmi più complessi e ambiziosi. Una quota che, sempre stando alla società di consulenza, è più o meno la stessa da anni. Ma i fallimenti hanno un costo – sottolineano – e comportano miliardi di dollari di potenziali perdite. Perciò, concludono, occorre cambiare il tradizionale approccio al change management.

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Luciana Maci
Luciana Maci

Giornalista professionista dal 1999, scrivo di innovazione, economia digitale, digital transformation e di come sta cambiando il mondo con le nuove tecnologie. Sono dal 2013 in Digital360 Group, prima in CorCom, poi in EconomyUp. In passato ho partecipato al primo esperimento di giornalismo collaborativo online in Italia (Misna).

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