“Ho fallito. Abbiamo fallito nel costruire un’alternativa a Linkedin” ha scritto Andrea Zorzetto in un post su Linkedin in un tiedipo giorno d’aprile. Ha fatto ciò che pochi fanno, nonostante la gran retorica sulla cultura del fallimento: dichiarare pubblicamente la fine di una startup, di un progetto imprenditoriale.
Andrea Zorzetto è giovane, compirà 31 anni in luglio, ma ha in carniere una bella raccolta di esperienze: ha cominciato come policy advisor per il governo Inglese e la città di Parigi, è stato digital policy advisor del governo francese, è stato consigliere del Municipio 9 di Milano e founder di un’associazione no-profit per la mobilità sociale e per quasi 5 anni ha guidato le attività in Italia di Plug and Play, la più grande piattaforma di open innovation del mondo. Si legge un doppio percorso che è sintetizzato nel suo motto: “serving the nation with family and business”.
Dopo aver visto e conosciuto tante startup nel 2023 ad Andrea Zorzetto viene voglia di giocarsi la sua partita e nel 2024 lancia Peoplerank, una piattaforma per dare i voti a founder e investitori (tra parentesi diventa anche padre, a proposito di family and business…). Dopo centinaia di sessioni di brainstorming, interviste, call e pitch, 10 tentativi di aggiustare il prodotto, e due anni di lavoro, quel progetto è fallito. Back into stealth: si torna ad esplorare nuove idee mentre sia Andrea che i cofounder fanno freelancing.
Ad Andrea Zorzetto ho chiesto di raccontare per EconomyUp tutte le sfumature del fallimento.
Andrea, partiamo dalla fine: come ti sei sentito nel condividere pubblicamente il fallimento?
Per me il processo più lungo è stato ammetterlo a me stesso. Una volta fatto questo passo, una volta assimilato quel che era accaduto e tratto i relativi insegnamenti, mi sono sentito sereno. Dirlo pubblicamente, a quel punto, è stato abbastanza naturale e anche giusto. Credo che quando fai l’imprenditore, ti assumi tanti rischi, hai tanti onori se le cose vanno bene—ti diverti, hai visibilità, motivazione, magari perfino soldi, potere. È giusto, quando invece vanno male, che ti assumi anche tutte le responsabilità. Se sei leader, ci devi mettere la faccia. Mi sembra corretto.
Perché pensi che il fallimento sia ancora così difficile da affrontare, anche fra chi fa startup e predica la cultura del fallimento?
È giusto che il fallimento faccia male. Quando cerchi di fare qualcosa di difficile, devi crederci fino in fondo. Il tuo primo impegno da leader è l’ottimismo: verso il team, gli investitori, i clienti, la community. Se non ci credi tu, chi dovrebbe farlo?
Il desiderio di evitare il fallimento a tutti i costi è anche una forza positiva, perché ti spinge a dare tutto. Il problema arriva quando le cose non vanno, ed è evidente che non stanno andando, ma tu non riesci ad ammetterlo—né con te stesso, né con gli altri.
Quello è un altro tipo di fallimento. E lì, come ecosistema, dovremmo essere più tolleranti. Non è che, se non lo dici, gli altri non se ne accorgano. Lo sanno. Anzi, posso dire che, nel mio caso, il post che ho fatto su LinkedIn è stato il più apprezzato di sempre. Anche da investitori—alcuni mi hanno scritto, si sono fatti sentire, hanno voluto aggiornarsi, parlarmi di nuove idee. Magari sono in una bolla fortunata dell’ecosistema italiano, ma l’ho vissuta bene.
Andrea Zorzetto, dicevi che la cosa più difficile è stata comunicare il fallimento a te stesso. Che tipo di emozioni hai provato?
Un misto tra vergogna e senso di colpa, direi più senso di colpa. Si fa spesso la distinzione tra il senso di colpa individualista proprio della cultura occidentale e la vergogna come fatto sociale, che fa parte delle società orientali. Io sentivo infatti più senso di colpa. Verso mia moglie, Chiara, che si è dovuta sorbire momenti in cui ero giù, qualche giorno qua e la ma in un paio di casi un’intera settimana. Tra l’altro scherziamo sul fatto che se le cose vanno bene, sono iperattivo, parlo tanto, entusiasmo alle stelle, e quindi sono comunque insopportabile In entrambi i casi, le va male (e sorride…ndr.). La ringrazio, comunque, per la pazienza
Il senso di colpa lo senti verso gli angel investor, che hanno messo soldi da privati senza avere le spalle larghe. E anche verso i fondi che conoscono i rischi ma fanno un lavoro molto difficile. Verso il mio team ovviamente— si sono trasferiti a Milano, da stranieri, una città carissima quando fai startup. Una di loro non aveva neanche il visto, essendo bielorussa – sapete com’è la burocrazia italiana. Due anni nel deserto, e poi si ritrovano con niente.
E poi senso di colpa anche verso me stesso: rabbia, delusione, invidia passeggera… Ma, per essere onesto, queste emozioni non durano più di qualche ora. Il problema vero, per me, è stato il senso di vuoto. L’apatia. La stanchezza mentale. La mancanza di progresso.
E in quei momenti difficili che cosa hai fatto?
C’è stata una settimana in cui ho raggiunto il punto più basso. Troppo tempo passato onlinea a giocare a Catan. Non avevo voglia di fare nulla o pensare ai vari problemi. Ma da lì è iniziata la risalita. Anche grazie a Chiara, in primis, dispiaciuta nel vedermi così. Ho metabolizzato, ho tirato una riga e sono ripartito. Avere dei momenti di fermo e di continui rinvii è naturale.
Hai detto che uno degli effetti del fallimento è anche guardare di più che cosa fanno gli altri...
Sì, è un segnale che le cose non stanno andando bene. Quando sei in pace con te stesso, ti stai divertendo, non ti interessa cosa fanno gli altri. Quando invece sei giù, apri LinkedIn e invidi tutti. Anche se magari li conosci, ti stanno simpatici, fai il tifo per loro. È una tentazione sbagliata, ma naturale. Lo stesso vale per Instagram nella vita personale. Però sono emozioni passeggere. Le superi.
Si dice che il fallimento è un’occasione di apprendimento. A te cosa ha insegnato?
Tantissimo. In ogni successo ci sono fallimenti, e viceversa. Ho imparato molte cose di business— ne parlo nella mia newsletter —ma il vero valore del fallimento è più profondo. È un momento in cui ti metti in discussione, tagli il superfluo, scopri cosa ti piace davvero fare, e capisci in che cosa sei bravo.
Dieci anni fa ho avuto un’altra fase simile, anche più dura a livello personale. Ricordo come ne ero uscito, e quanto mi era stato utile. Il successo non ti fa porre domande. Il fallimento sì. È lì che capisci cosa è fragile e cosa è solido. Cosa si rompe e cosa diventa più forte. E quella è la cosa più preziosa che puoi portarti dietro per la prossima idea, la prossima startup.
Che consiglio daresti a chi sta vivendo da una fase simile?
I consigli valgono poco, è l’energia e l’azione che fanno la differenza. Però se devo darne, è questo: muoviti! Fai. Scrivi, lavora, vedi persone, costruisci. Io sto facendo freelancing e mi sta piacendo molto. Non solo per la cassa, ma perché fare qualcosa che sai fare, per qualcuno che lo apprezza, è motivante. Ti tiene vivo. Sono un po’ scettico sull’idea che la soluzione venga dalla riflessione pura o dalla terapia, dal guardarsi indietro o fantasticare sul futuro. La soluzione viene dal movimento, adesso. La vita è movimento. Pensare è utile, ma solo se stai costruendo.