Nuova imprenditoria

Fare impresa, che cosa cambia tra Londra e Roma

Nicola Mattina, founder di Stamplay, spiega le differenze tra l’ecosistema della City e quello della Capitale: agevolazioni fiscali, contabilità semplificata, meno burocrazia. A Roma ci sono condizioni interessanti ma mancano aziende con vocazione internazionale

Pubblicato il 02 Apr 2014

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Il team di Stamplay

Quali sono i fattori che spingono un imprenditore e consulente a costruire la propria startup a Londra, pur mantenendo la produzione in Italia? Lo abbiamo chiesto a Nicola Mattina che, dopo una carriera più che ventennale nel campo dell’imprenditoria e dell’innovazione, nel 2012 – assieme al suo socio Giuliano Iacobelli – ha creato Stamplay, la piattaforma per creare applicazioni web senza bisogno di avere un developer, un grande budget o capacità di programmazione.

Di quali agevolazioni fiscali usufrisce Stamplay nel Regno Unito, in quanto Ltd?
Le agevolazioni di cui usufruiamo come Ltd (una forma societaria presente nel Regno Unito che può essere assimilata, nonostante numerose differenze, alla srl italiana, ndr) ono quelle previste per tutte le aziende che nascono in Gran Bretagna: non è necessario aprire una partita Iva fino a circa 70mila sterline di fatturato e la contabilità è ipersemplificata (noi ancora non abbiamo presentato un bilancio). Inoltre, aprire una società costa pochissimo in termini di adempimenti burocratici, così come registrare le variazioni al capitale sociale. Come startup innovativa, possiamo accedere al SEIS e quindi i business angel che volessero investire in Stamplay avrebbero delle consistenti agevolazioni fiscali. Inoltre esistono delle detrazioni fiscali molto cospicue per chi investe in ricerca e sviluppo in UK, ma di queste difficilmente usufruiremo perché noi produciamo in Italia.

In Italia c’è molto fervore per le startup innovative. Quali proposte vorresti avanzare al nostro Esecutivo a favore dell’ecosistema startup?
Non avrei dubbi a proporre uno schema come il SEIS, ma anche di guardare con estremo favore aziende come la nostra che hanno la sede legale in UK e una branch in Italia (nel nostro ordinamento si chiama stabile rappresentanza) per la produzione. Infatti, se io ho una sede operativa in Italia vuol dire che creo occupazione qui e pago le tasse qui. Allo stesso tempo, però, ho una struttura societaria che mi permette di accedere ai capitali stranieri più facilmente perché è del tutto improbabile che un investitore early stage metta dei soldi in una SRL italiana. Invece di inventarci “società strane”, come la SRL semplificata, il cui unico motivo di esistere è non toccare gli interessi corporativi di notai, camere di commercio, eccetera, dovremmo pensare a una Società Europea a Responsabilità Limitata in cui è previsto che la sede legale sia in un altro stato dell’Unione Europea e che in Italia ci sia una sede di produzione che produce occupazione. È un ribaltamento di quello che accade adesso, perché la stabile rappresentanza è essenzialmente una sede commerciale che vende, mentre la produzione accade altrove.
La SERL dovrebbe godere di una serie di agevolazioni in funzione dell’occupazione prodotta. Per esempio un costo del lavoro ridotto, la possibilità di usare i soldi della formazione senza passare dalla mafia organizzata dai sindacati, l’esenzione da idiozie come l’articolo 18 che è solo una foglia di fico e non fornisce alcune reale tutela ai lavoratori.

Stamplay ha sede al Google Campus, nel cuore della Tech City, il quartiere di Londra che vanta la presenza di circa 1500 imprese digitali. La Tech City è, secondo te, un modello replicabile in una metropoli come Roma?
In generale io sono molto scettico sull’idea di cercare di replicare esperienze che funzionano all’estero perché si tende a prendere la parte più visibile e facilmente copiabile (per esempio l’idea di un luogo come il Google Campus) e a dimenticare tutto il contorno che rende possibile quell’esperienza. A Londra, inventare una cosa che si chiama TechCity ha l’obiettivo di costruire uno storytelling e di aggregare delle risorse che già esistono, perché ci sono già startup di successo, sedi di grandi multinazionali del digitale come Google e Facebook e ovviamente tanti fondi di venture capital. Ma anche senza una realtà che si chiama TechCity, Londra sarebbe comunque uno degli hub tecnologici europei. Fare la stessa operazione partendo da zero in una città italiana non avrebbe alcun senso e non porterebbe ad alcun risultato significativo in termini di creazione di nuove imprese e di posti di lavoro. Creare un hub tecnologico significa innanzitutto avere delle aziende di rilievo internazionale. Basti pensare anche all’esperienza scandinava: nessuno considererebbe Helsinki un hub per il video gaming se non ci fossero Rovio o Supercell. Ma certo non sono nate perché un giorno il governo finlandese ha deciso che dopo le renne e i cellulari, i videogiochi dovevano essere la nuova vocazione del Paese.

A Roma ci sono delle condizioni interessanti (università tecniche di buon livello e poche possibilità per i neo laureati al di fuori del body rental e del lavoro a cottimo per i grandi system integrator), ma senza casi di aziende con una forte vocazione internazionale e tassi di crescita molto elevati, non vedo grandi margini. Temo, invece, che saranno in molti a cavalcare il trend delle startup per avere accesso alle risorse pubbliche. Prevedo, insomma, che nei prossimi due anni assisteremo nella Capitale a numerose inaugurazioni.

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