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Di meritocrazia non si muore, ma non si abusa!

Usi e abusi di una parola dal significato complesso che richiama la ricerca della verità e della responsabilità. Dalle considerazioni di Roger Abravanel sulla virtù del merito, pregi e limiti di uno dei mantra di questi tempi.

Pubblicato il 19 Gen 2017

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Poche parole hanno caratterizzato in modo tanto ambivalente il linguaggio politico ed economico come la sempre-in-auge “meritocrazia”. Quando si parla di lei, la rete esplode con confronti dialettici spesso vivaci, per non dire violenti. Si tratta di una parolina magica, quasi mitica, che delinea una sorta di società ideale, in base alla quale le responsabilità direttive e le cariche pubbliche dovrebbero essere affidate ai più meritevoli.

La parola “meritocrazia” è un termine coniato negli Stati Uniti (dall’inglese meritocracy) e introdotto in Italia negli anni Settanta, «con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri», come spiega il dizionario Treccani.

Questo concetto è oggetto di divisioni profonde in Italia. Da un lato ci sono i paladini irriducibili del merito, e dall’altro chi considera la meritocrazia un imbroglio, una forma di aristocrazia in chiave moderna, collegato ad un’idea di esclusione.

Tra gli autori della Think Tank del Merito, c’è il noto saggista Roger Abravanel, fondatore del portale www.meritocrazia.com, che la descrive come «un sistema di valori che valorizza l’eccellenza indipendentemente dalla provenienza, dove “provenienza” significa appartenenza ad un’etnia, un partito politico, una famiglia di origine e l’essere uomo o donna».

I due valori della meritocrazia, pari opportunità grazie al sistema educativo e libero mercato, secondo Abravanel, «sono spaventosamente carenti nella società e nell’economia italiane. Le pari opportunità per i giovani si fermano a Roma: i giovani del Sud hanno scuole pessime, come dimostrano i loro test PISA (a livello di Uruguay e Thailandia, anche se nessuno lo sa, dato che i voti assegnati agli studenti dagli insegnanti sono buoni, al livello di quelli del Nord). Le pari opportunità per le migliori donne italiane non esistono, dato che il “soffitto di vetro” per le migliori italiane è il peggiore del mondo sviluppato: le donne italiane sono quelle che lavorano di meno e fanno meno figli».

Osserva ancora Abravanel nel suo forum sulla meritocrazia che «la concorrenza non è un concetto amato dalla nostra società ed economia, come dimostrato da diverse ricerche. Non ha mai interessato i nostri policy makers, che preferiscono proteggere imprese e lavoratori a scapito di consumatori e cittadini, vedi il caso dell’Alitalia. Ma il libero mercato non ha mai interessato davvero anche molti imprenditori italiani che, invece di far crescere la propria azienda valorizzando il talento non famigliare, preferiscono tenere il controllo della governance e della leadership in famiglia: “piccolo è bello”, perché permette all’impresa di servire gli interessi della famiglia e non viceversa, come avviene nelle grandi aziende famigliari globali».

Anch’io credo che prima di chiedere alla politica un cambio di passo, la società e il suo tessuto produttivo devono dare l’esempio premiando le persone non solo più capaci tecnicamente, ma più responsabili.

Sul tema della responsabilità, per esempio, ricordo che fino a pochi anni fa Luxottica eliminava tout-court i cv dei candidati che a 22 anni vivevano ancora con i genitori perché lo considerava un indice di mancanza di quella personalità che cercava nei giovani da assumere. E come Luxottica molti altri selezionatori di aziende ben sanno che se un giovane non è neanche capace di essere responsabile di se stesso non lo sarà mai nei confronti di altri. Quindi alla domanda se sono più bamboccioni o sfiduciati, sono pienamente d’accordo con Abravanel che sottolinea come «il loro problema è la mancanza di fiducia nella loro capacità di costruirsi un futuro migliore e nel ritorno di un forte investimento che comporti sacrifici e rischi. Sono sfiduciati perché non hanno le esperienze di vita e di lavoro che danno fiducia, i datori di lavoro offrono lavoretti che formano poco perché sono inesperti e la loro sfiducia aumenta. Senza fiducia, non può nascere quella mentalità che porta i loro coetanei all’estero a indebitarsi per andare nelle migliori università».

I più critici sulla meritocrazia hano osservato invece che genera tensioni fra colleghi, amplifica le invidie, giustifica individualismi ed ingiustizie, non favorisce la collaborazione spontanea, soffoca la passione per il proprio lavoro. Una stupida quanto inutile pseudocompetizione, ove ognuno controlla l’altro per cogliere segnali di demerito che possano giovare al proprio tornaconto.

Occorre invece operare con spirito di collaborazione e sinergia in funzione di obiettivi comuni. D’altronde chi potrebbe sostenere che il merito non debba essere riconosciuto? Che a parità di requisiti, fra due pretendenti per un unico posto, non debba essere preferito chi dimostra di poter realizzare prestazioni migliori?

Quella della meritocrazia, a mio parere, è una questione mal posta, che dovrebbe tradursi in un nuovo sistema in grado di valorizzare le differenze, offrire opportunità autentiche e premiare più che l’intelligenza delle persone (fattore influenzato dalle condizioni socio-economiche), lo sforzo che queste fanno per migliorare.

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