Open Innovation, che cosa vuol dire (e da quando se ne parla)

Il termine è stato usato per la prima volta nel 2003 dall’economista americano Henry Chesbrough nel titolo di un suo libro in cui spiegava perché la ricerca fatta all’interno dei confini dell’impresa non era più sufficiente per affrontare le sfide della globalizzazione e della digitalizzazione. Parola d’ordine: aprirsi e accogliere gli stimoli e le proposte di altre aziende, startup comprese.

Pubblicato il 09 Mag 2016

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Aiutare le imprese a capire, affrontare e gestire l’innovazione aperta. Con questo obiettivo il Gruppo Digital 360 ha creato la piattaforma di servizi Digital & Open Innovation”, dove è possibile aprire un dialogo con cinque esperti che risponderanno alle vostre domande su come come si attiva, si “mette a terra” e si governa un processo di innovazione aperta in grado di creare valore e accrescere la competitività di un’azienda.

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OPEN INNOVATION, CHE COSA VUOL DIRE (E DA QUANDO SE NE PARLA)

Risponde Giovanni Iozzia, direttore di EconomyUp


Convenzionalmente la data riconosciuto come inizio della storia dell’Open Innovation, o almeno del termine, è il 2003, anno in cui l’economista americano Henry Chesbrough, docente a Berkeley pubblicò il libro The era of open innovation. Tutto comincia con quel titolo e con la tesi che il volume argomentava: la “closed innovation”, ovvero la ricerca fatta all’interno dei confini dell’impresa, non era più sufficiente per affrontare le sfide della globalizzazione e della trasformazione digitale.

Google c’è da 5 anni ma non è ancora BigG, Facebook sta per arrivare (2004) ma è chiaro, a chi vuol vedere lontano, che il modo in cui si muoveranno talenti e conoscenze non sarà più lo stesso. Soprattutto si comincia a intravvedere quel che sarà il subastrato essenziale della rivoluzione digitale: i capitali vanno verso aziende molto diverse da quelle conosciute fino a quel momento, con modelli di business originali e con tassi di crescita inusuali per le industrie tradizionali. È quella che in una sola parola viene chiamata disruption.

Le aziende tradizionali all’inizio ritengono che non sia affare loro ma Chesbrough vede lontano e avverte: non attingere a questi nuovi saperi, collaborando con altre aziende, magari più avanzate dal punto di vista tecnologico, può rivelarsi uno svantaggio significativo. Una perdita di competitività che può risultare esiziale per un’impresa. Da qui la necessità di aprisi verso l’esterno, di accogliere stimoli e proposte che arrivano dalle nuove imprese ad alto contenuto tecnologico e innovativo, le startup.

Nei nuovi mercati non vince chi produce al proprio interno le migliori innovazioni ma chi riesce a creare prodotti e servizi innovativi modulando al meglio ciò che viene da dentro e ciò che viene da fuori. Fare Open innovation significa proprio questo: attrezzarsi per accedere alle innovazioni “in vendita” sul mercato integrandole con il proprio modello di business.

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