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«In caso di Brexit per le startup sarà complicatissimo trovare talenti»

Sul referendum del 23 giugno interviene Simone Cimminelli, Managing Director di iStarter, acceleratore che fa da ponte per le giovani imprese italiane che vogliono operare in UK: «Oltre a diventare una piazza di minore appeal, Londra potrebbe diventare problematica anche per il recruiting: già ora è difficile trovare un developer»

Pubblicato il 16 Giu 2016

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Simone Cimminelli, MD di iStarter

Il 23 giugno i cittadini della Gran Bretagna sono chiamati a decidere attraverso un referendum se il loro Paese dovrà uscire o meno dall’Unione europea. Un tema che coinvolge anche l’ecosistema delle startup, che a Londra è il primo in Europa con 8,2 miliardi di euro di investimenti (dati aggiornati al 2016), 207 miliardi di fatturato e 274 mila startup attive. Tra queste ci sono anche quelle fondate e cresciute in UK da italiani, o altre che operano sul mercato britannico, così come ci sono imprenditori italiani attivi sul territorio. EconomyUp ha chiesto ad alcuni di loro cosa ne pensano della Brexit e quali conseguenze ritengono che avrà sul futuro della giovane imprenditoria. Ecco l’intervento di Simone Cimminelli, Managing Director di iStarter, acceleratore italiano con sede a Londra dedicato alle startup del nostro Paese che vogliono operare nel Regno Unito.

Essendo iStarter un ponte tra Italia e Regno Unito, abbiamo riflettuto a lungo sul tema Brexit: ci riguarda molto da vicino. La sensazione è che nessuno riesca a stimare l’impatto di un’eventuale uscita, ma la portata dei cambiamenti potrebbe essere forte. Ci siamo immaginati che sicuramente molte startup europee che guardano a Londra guarderebbero a piazze come Parigi, diventata molto più competitivi o a Berlino, che è già solida e potrebbe approfittarne.

Uno dei vantaggi competitivi di Londra è l’accesso al mercato dei capitali di Uk e Usa e la prospettiva di operare in un mercato globale, che guarda all’Europa come punto di riferimento. Se viene a mancare questo elemento, è naturale che alcune piazze possano diventare più attraenti.

Alcune startup in arrivo potrebbero scegliere di non arrivare più, anche se ci sarebbe da capire come funzionerebbe con i flussi immigratori e capire la logica degli accessi. Le nuove imprese presenti, che hanno un baricentro europeo, potrebbero ritenere più ragionevole posizionarsi in altre geografie.

La Brexit potrebbe impattare anche sul mercato del lavoro. Se già adesso non è semplice trovare un developer in UK, figuriamoci cosa sarà quando si toglieranno le competenze in arrivo da Europa dell’Est, Europa continentale e dalla stessa Italia, che ha tanti talenti.

Se si leggono le previsioni, ce ne sono di catastrofiche nel breve periodo. C’è chi prevede un calo dell’8% del Pil il primo anno, anche se i criteri delle previsioni sono discutibili. E anche l’umore delle startup non è dei migliori. Noi e le società che seguiamo siamo in attesa di sapere cosa succederà e molti di noi hanno fatto propaganda attiva per convincere gli inglesi a rimanere. La tensione non manca. Ho alcuni amici che lavorano in banca che mi hanno detto che se dovesse succedere davvero, tra sei mesi non sarebbero più a lavorare nel Regno Unito.

Per quanto riguarda gli investimenti, nella prima metà dell’anno non si è visto l’effetto. Naturalmente c’è stato un rallentamento in questo mese e, in caso di Brexit, ci sarà il periodo estivo per riassestarsi dopo il colpo e capire quello che è successo. Nessuno comunque ha una linea precisa. Grossi hedge fund hanno commissionato delle survey indipendenti sul referendum. C’è il sentore che nessuno ha visibilità di quello che sarà il risultato e procedono con il freno a meno tirato.

Di certo, Londra diventerebbe una piazza meno attraente per gli investimenti. Se il plus attuale è il riuscire a combinare i benefici del mercato unico con la libertà monetaria e il rapporto privilegiato con gli istituti finanziari, al venir meno di qualche elemento, l’appeal calerebbe. La Germania e la Francia, con un’Inghilterra che esce, cercherebbero di approfittarne e sia Francoforte che Parigi, come Borse, proverebbero a far collocare lì società attualmente sul London Stock Exchange. Anche per l’Italia probabilmente potrebbe essere un’opportunità di attrarre innovazione e investimenti.

Tutto però resta molto incerto. A Londra, che non è ovviamente tutto il Regno Unito, si vedono situazioni stranissime: nella grossa banca trovi l’analista al piano di sotto con il report che prevede catastrofi in caso di Brexit e l’executive al piano di sopra che dice per votare l’uscita. Che ci sia grossa insofferenza rispetto alla burocrazia europea è noto, in tutte le categorie sociali, comprese quelle che non ragionano di pancia. C’è un orgoglio inglese da non sottovalutare. C’è chi pensa: sì, se usciamo il contraccolpo sarà duro ma noi siamo l’Inghilterra. E il titolo del Sun, BeLeave in Britain, che gioca con le parole “believe” (credere) e “leave” (lasciare) testimonia proprio questa fierezza: al di là degli sconquassi nel breve periodo e degli Usa che hanno detto chiaramente che non considererebbero più l’Inghilterra un interlocutore privilegiato, c’è la fiducia di potercela fare. Anche se è uno scenario che ovviamente non mi auguro, la mia sensazione è che al momento la Brexit sia un’ipotesi in lieve vantaggio.

* Simone Cimminelli è Managing Director di iStarter, un acceleratore italiano con sede a Londra dedicato alle startup del nostro Paese che vogliono operare nel Regno Unito.

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