Clayton M. Christensen coniò il termine "disruptive innovation" nel 1995, esattamente un quarto di secolo fa. Il professore di Harvard se n'è andato a 68 anni poco più di una settimana fa e c'è chi ritiene che il suo messaggio sia ormai "antico", superato. Eppure la consapevolezza dei rischi che corrono i leader di mercato di fronte all'avanzata di imprese nuove, leggere, altamente hi-tech non è poi così diffusa tra imprenditori e manager. La disruption è arrivata in varie forme, sta avanzando più o meno velocemente ma c'è ancora bisogno, soprattutto in Italia, di cogliere e amplificare l'eredità di intellettuali dell'innovazione come Christensen. Altrimenti come spiegare i 125 milioni di investimento su ManoMano, scaleup francese fondata nel 2013? O come comprendere l'ingresso di Facebook nel mondo dei servizi finanziari? Seguendo il buon esempio di aziende come Zucchetti o Rovagnati, solo per citarne due che sono nelle cronache di questa settimana, che investono sulle startup o le comprano per fronteggiare la "disruptive innovation" degli altri. Buona innovazione a tutti
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