Il presidente-startupper: siamo una generazione di imprenditori fortunati

Il leader dei Giovani di Confindustria, nella prefazione al libro “L’innovazione che non ti aspetti” di Emil Abirascid, in libreria questa settimana, racconta la sua esperienza con le startup e spiega perché chi fa impresa oggi ha più vantaggi: nuovi consumatori, nuovi strumenti, nuova cultura

Pubblicato il 12 Giu 2015

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Da giovedì 18 giugno sarà in libreria “L’innovazione che non ti aspetti” il nuovo libro curato da Emil Abirascid e pubblicato da Franco Angeli. Contesti e visioni per l’impresa dice il sottotitolo. A rappresentarli una ricca schiera di firme che rappresenta l’idea di base dell’autore: “Fare impresa è impegnativo. Farla innovativa ancora di più. Farla in Italia è una sfida. Il volume raccoglie gli interventi di (in ordine di apparizione) Andrea Rangone, Andrea Cavallaro, Angelo Cavallo, Francesco Inguscio, Francesco Mantegazzini, Carlo Brunetti, Matteo Faggin, Adriano La Vopa, Luca Escoffier, Enrico Aprico, Matteo Achilli, Antonio Verna, Umberto Palaia, Nicolò Marin, Roberto Cava, Andrea Gangemi, Luca Gambini, Valentina Turco, Elisa Schembari, Roberto Zanco, Aldo del Bo’, Pietro Martani, Stelio Verzera, Jari Ognibeni, Daniele Cevola, Francesco Belvisi, Matteo Pozzi, Enrico Marson, Romolo Stanco, Jacopo Muzina, Andrea Zoppolato, David Orban. I loro interventi sono preceduti da tre interviste di Abirascid a Pierantonio Macola, Tommaso Maria Chiorino e Andrea Risa.
A firmare la prefazione è Marco Gay, presidente dei Giovani di Confindustria. Eccola in anteprima.

Ho conosciuto Emil diversi anni fa. Avevo un progetto imprenditoriale: si chiamava goBrain.it e consisteva in un laboratorio di creatività distribuita, un’azienda partecipativa dove le idee vengono elaborate e accelerate fino a diventare progetti, prodotti o startup. Era un sogno, ancora, e io stavo cercando investitori per concretizzarlo. Così feci il primo pitch della mia vita, consapevole che la platea che mi ascoltava avrebbe potuto dare concretezza a goBrain.it. Il discussant del mio primo pitch era, appunto, Emil.

La storia non ha il lieto fine che ci si può immaginare, non in quel momento almeno, perché nessuno all’epoca volle finanziare il mio progetto. Ho pensato che fosse utile aprire la prefazione con questo racconto perché questa storia contiene tre importanti lezioni: la prima è sull’autore, la seconda è sul senso di scrivere un libro come questo, la terza è sul messaggio che trasmette a chi lo leggerà.

Marco Gay, presidente dei Giovani di Confindustria

L’autore innanzitutto: che Emil fosse su quel palco, diversi anni fa ormai, dimostra che, al di là delle biografie ufficiali o ufficiose, chi ha curato questo libro non è soltanto un bravo giornalista, un osservatore, un opinionista, ma è un protagonista. Non solo scrive di innovazione e di impresa, ma è uno che l’innovazione e l’impresa la vive ogni giorno. Uno che le startup in Italia le ha quasi inventate e le ha fatte conoscere perché lui stesso le conosce nel profondo, ne sa intuire potenzialità e innovatività, sa aiutarle a crescere e a diventare imprese vere e proprie.

La seconda lezione attiene al perché un libro sull’innovazione funziona in particolar modo se scritto a più mani. Proprio come capitolo dopo capitolo storie diverse formano un grande affresco dell’innovazione, anche nella vita di un Paese è solo tramite il contributo di tanti imprenditori ostinati e caparbi che l’innovazione diventa possibile. Perché l’innovazione, per natura, è contaminazione: sono convinto che ciò che la distingue dall’invenzione è il fatto che la prima è collettiva mentre la seconda appartiene solo al genio, quello che scopre in solitudine la nuova legge fisica. I geni però si contano sulla dita di una mano, si limitano a casi come quello di Isacco Newton e della sua mela. Così come pochi sono gli imprenditori con storie incredibili: dal garage di Cupertino ai nostri campioni nazionali.

Ciò che fa la differenza nella competitività industriale di un Paese non sono due o tre inventori geniali ma migliaia di innovatori normali e magari seriali. Un tempo sedevamo nel club mondiale dei brevetti non solo perché Giulio Natta aveva inventato la plastica ma perché c’erano centinaia di piccole e grandi imprese che usavano il Moplen per fare oggetti casalinghi di design, tubi di scarico e pellicole trasparenti: la materia termoplastica più utilizzata nell’industria italiana dava un vantaggio competitivo in tutti i settori.

Oggi o torna a essere competitiva l’Italia intera, o in quel club non ci rientreremo più. Il tempo degli eroi solitari che, nel tentativo di rivoluzionare la società, si costruivano ali di cera per volare vicino al Sole è finito. Oggi la vera rivoluzione l’hanno fatta, per esempio, i voli low cost, che hanno democratizzato i trasporti e permesso a migliaia di persone di viaggiare, contaminare e contaminarsi con culture diverse. Per questo dobbiamo pensare a mezzi comuni che ci portino in alto.

Essere un innovatore e un leader significa trasformare una visione personale in realtà collettiva, riuscendo a guidare, in questo cammino, le persone che ci stanno accanto, la nostra comunità, fino a farla diventare attore o parte delle comunità del cambiamento.

Serve innovazione collettiva, a cui partecipa una classe dirigente unita con un progetto d’Italia condiviso e strutturale. Un progetto che agisca sui driver dell’innovazione e costruisca un ecosistema fiscale, legislativo, burocratico e di collegamento con i centri di ricerca finalmente positivo per le aziende. Un Paese finalmente normale, nel quale chi fa impresa si assume il rischio ma non la follia di farlo in Italia: pensiamo al gap digitale che costa 3,6 miliardi di euro l’anno di mancata innovazione e mancata creazione di distretti e filiere distribuite.

Perché se l’innovazione ha un’anima disruptive – che cambia prodotti, processi e pensiero – la società deve avere una vocazione a ricostruire, con un piano di politica industriale che metta al primo posto la nascita di nuove imprese e la crescita di quelle esistenti e tradizionali.

E’ possibile farlo. Nonostante sette anni di crisi siamo, infatti, una generazione di imprenditori fortunati.

Forse anche più di quanto immaginiamo e di quanto lo siano state le generazioni precedenti, quelle del boom degli anni ‘60. Perché ci sono 3 miliardi di nuovi consumatori da intercettare e nuovi mercati da esplorare. Perché ci sono nuovi mezzi e nuovi approcci. A differenza dei nostri padri possiamo contare, infatti, su una cultura di impresa radicata nel Paese che non vede più nelle aziende e nel capitalismo il nemico ma un’opportunità, che ha sconfitto ogni altro modello economico alternativo come quello del socialismo reale, che ha creato nuovi e sani miti per i più giovani come quello della Silicon valley.

Sappiamo fare rete fra imprenditori, siamo cioè capaci di bilanciare la sana logica della competizione interna quando ci confrontiamo con quella della cooperazione quando ci misuriamo con le istituzioni o aggrediamo nuovi mercati esteri.

Ecco perché siamo imprenditori fortunati.

Se ci abituiamo a questa idea e torniamo a investire sul futuro delle nostre imprese e di quelle che oggi sono solo un’idea sono certo che daremo vita a un nuovo miracolo economico. Per abbracciare questa idea serve però uno spirito diverso: quello che vive ogni crisi, ogni fallimento, non come la fine ma come una opportunità. Quello di chi pensa, come diceva Aristotele, che “l’eccellenza non è un atto ma un’abitudine”. E che l’impegno e il sacrificio sono essenziali per raggiungere i traguardi.

Questa è la terza lezione di quella storia che ho raccontato prima: lo spirito che trasmette a chi legge questo libro è lo spirito di chi non si arrende. Quel che ho omesso, infatti, è che al sogno di goBrain.it io non ho rinunciato, nonostante il mio primo pitch non avesse avuto successo, e che da idea è diventato progetto e da progetto realtà.

Partendo da quella esperienza e da quella ‘delusione’ negli anni ho fondato alcune startup, fra cui l’ultima Let.life operante nel settore dell’Internet of things, che approccia il futuro di un settore che sta nascendo in maniera disruptive e che proprio grazie anche al mio primo pitch oggi trova investitori e opportunità in un ecosistema nella cui nascita e crescita in molti abbiamo creduto e crediamo.

Nel frattempo come imprenditore e startupper sono diventato Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, una di quelle comunità del cambiamento di cui accennavo qualche paragrafo prima.

Anche questa un’innovazione – una piccola rivoluzione se vogliamo – per viale dell’Astronomia, che segna il passo dei tempi e dimostra che già nel prossimo futuro la manifattura non sarà più esclusivamente la produzione di beni materiali, ma si sposterà verso una produzione di soluzioni in cui bene materiale e servizio saranno sempre più integrati: l’Industria 4.0. Dal Fordismo passeremo al “talentismo”, come dice il fondatore ed executive chairman del World Economic Forum Klaus Schwab, quello basato sulla creatività e sulla capacità di innovare più che sulla catena di montaggio.

E’ infatti un errore e un limite culturale pensare all’universo delle imprese innovative come un mondo separato e contrapposto a quello della manifattura tradizionale. Pensare che ci sia da una parte Facebook e dall’altra la fabbrica. Perché invece il nostro futuro si basa proprio sulla capacità di far dialogare questi mondi.

Partendo dalle potenzialità dell’economia digitale, la sfida che dobbiamo vincere è quella di integrarla con la tradizione manifatturiera del nostro Paese, per aprire opportunità di sviluppo enormi. Opportunità che caricano chi crede nel fare impresa, come me e Emil, della responsabilità di aiutare le startup a nascere non con la sola ambizione di fare una exit redditizia, ma con quella di diventare vere e proprie imprese. Chi, come me ed Emil e tutti gli autori del libro, vede crescere i maker, affermarsi la sharing economy, diffondersi i fablab, deve farsi carico della responsabilità di poter rispondere che non saranno promesse sprecate ma passeranno alla fase di scale up. Perché le potenzialità ci sono tutte.

Sappiamo che il futuro dipende dalla nostra capacità di portare avanti il patrimonio imprenditoriale e culturale italiano – quello della pasta e del Colosseo, quello del design e della meccanica – che rende riconosciuto e apprezzato il made in Italy nel mondo. Sappiamo che possiamo farlo. E sappiamo che il nostro successo dipenderà dalla nostra capacità di resilienza. Di innovare e innovarci. Di creare ogni giorno storie e strumenti incredibili, come quelli che questo libro speciale racconta a chiunque abbia la voglia e lo spirito per farsi contaminare.

* Marco Gay è presidente di Giovani di Confindustria

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