Rottamazioni

Posto fisso addio, ora nel lavoro conta l’employability

Dopo le parole di Renzi alla Leopolda, le polemiche e le riflessioni. Per Gabriella Bagnato, docente Bocconi, è fondamentale “acquisire competenze per passare da un’azienda all’altra”. Altro punto-chiave: la formazione continua. “Negli Usa è normale che un ingegnere faccia un corso e diventi assistente sociale”

Pubblicato il 27 Ott 2014

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Gabriella Bagnato, docente all'Università Bocconi di Milano

Il posto fisso non esiste più, ha detto ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Leopolda. È così? Sì, secondo Gabriella Bagnato, docente di leadership development, selezione e sviluppo alla Sda Bocconi School of Management. “Quando cominciamo a lavorare – sostiene la professoressa – sappiamo che quel luogo di lavoro non sarà lo stesso per tutta la vita, perciò quello che conta è crearsi una “employability”, un bagaglio di conoscenze, competenze e relazioni che ci consentano di fare carriera non più all’interno di una stessa azienda ma passando dall’una all’altra”. Parallelamente è fondamentale la formazione continua: “In Italia – afferma – serve un sistema educativo in grado di fornire i necessari strumenti alla riqualificazione”.

Concetti elaborati da Bagnato in un’intervista rilasciata ad EconomyUp qualche mese fa in occasione del “caso Uber”, l’app per noleggio auto creata da una società americana e fortemente osteggiata dai tassisti di tutto il mondo. Ma il testo può essere riletto come una riflessione sull’evoluzione del mondo del lavoro e sulle conseguenti strategie da adottare per fronteggiare l’impatto inevitabilmente “disruptive” delle nuove tecnologie.

Professoressa Bagnato, l’innovazione fa perdere il lavoro?
Non distrugge mestieri e professioni, ne crea di diversi: diminuiscono in certi ambiti, ma in altri ne nascono di nuovi. Il problema è che chi svolge una professione da molti anni ha accumulato una serie di esperienze e competenze e a un certo punto si rende conto che tutto ciò che ha appreso non è più utile. Questo perché negli ultimi 20 anni lo scenario è completamente cambiato: all’epoca si entrava in azienda, vi si rimaneva per un periodo prolungato di tempo o per tutta la vita e il lavoro rimaneva sostanzialmente uguale a se stesso perché i supporti tecnologici non avevano una evoluzione così rapida come quella attuale. Negli ultimi anni si è verificata un’accelerazione non solo tecnologica ma di modelli di business.

Cambiare per sopravvivere?
Sì, perché non possiamo mettere un freno all’evoluzione dei modelli di business. Del resto è un problema di molte categorie di lavoratori, quasi tutte, direi. Penso a noi docenti: nel momento in cui si decide che i corsi di un’università italiana devono essere tenuti in inglese (ed è successo), i professori che non sanno l’inglese sono fuori. L’esempio classico sono gli operai: le aziende hanno automatizzato i percorsi produttivi, così le attività ripetitive, faticose o pericolose vengono svolte dalle macchine. Ma questo ha comportato la perdita di posti di lavoro. Però, ripeto, il cambiamento investe praticamente tutte le categorie produttive: faccio fatica a individuarne qualcuna in cui il lavoratore si può permettere di essere ancora ciò che era, senza evolvere. Del resto siamo noi che lo chiediamo: noi utenti che desideriamo soluzioni innovative per semplificarci e migliorarci la vita.

Allora, se il fenomeno è così evidente, perché tanta resistenza al cambiamento?
Perché cambiare è costoso. Siamo progettati per essere resistenti al cambiamento, ci piace e ci fa comodo utilizzare le competenze acquisite. Invece dobbiamo imparare a rimetterci in gioco.

Non c’è il rischio che la riqualificazione professionale finisca per essere appannaggio dei ceti più elevati, che possono investirvi tempo e risorse?
Certo, c’è un costo in termini di tempo ed energie. In Italia servirebbe una cosa che è già molto diffusa nei Paesi anglosassoni: la formazione continua. Negli Usa, per esempio, un ingegnere della Nokia, mentre è ancora dipendente, può decidere di seguire un corso serale per fare l’assistente sociale, dopodiché è pronto per cambiare completamente ambito di lavoro. E la società americana lo accoglie in modo positivo. Invece da noi c’è la tendenza a non dare troppo fiducia a chi, a metà del cammino lavorativo, decide di cambiare settore. In Italia serve insomma un sistema educativo in grado di fornire i necessari strumenti alla riqualificazione. I costi per reinventarsi un lavoro? Oggi ci sono molte professioni o iniziative imprenditoriali in cui l’investimento iniziale è basso proprio grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie.

La politica quale ruolo dovrebbe giocare?
La politica dovrebbe spingere per far evolvere il sistema educativo e la gestione del lavoro. Purtroppo è noto che la reattività del sistema è più lenta della reattività individuale. Ma si andrà comunque sempre più verso l’innovazione: è una rivoluzione culturale che porterà necessariamente anche a cambiamenti istituzionali.

In concreto quanti posti sono stati guadagnati, e quanti perduti in Italia, nell’ultimo ventennio, a causa dell’innovazione tecnologica?
I numeri esistono, ce l’hanno le Camere di Commercio ed altri enti preposti: vanno estrapolati ed elaborati. Per parte mia posso citare una ricerca internazionale condotta da Fortune 100 su 10 top manager internazionali, che a mio parere fotografa molto bene la situazione: è emerso che dal 1980 al 2011 sono estremamente diminuiti i ‘fedelissimi’. Mi spiego: negli anni Ottanta i posti al vertice erano in mano a dirigenti che erano rimasti nella stessa azienda per tutta la vita. Nel 2011 tutto è cambiato: i top manager sono quelli che hanno ricoperto più incarichi in svariati gruppi. Qui diventa fondamentale il concetto di employability.

Cosa significa?
È la costruzione della possibilità di spendersi in aziende diverse dalla propria. Essendo ormai chiaro a tutti che quasi sicuramente non si trascorrerà tutta la vita in una stessa azienda, il dipendente dovrebbe preferire quei luoghi di lavoro che, oltre allo stipendio, gli garantiscano di sviluppare una propria employability, cioè un bagaglio di esperienze, competenze e relazioni che poi possano servire quando deciderà di – o dovrà – cambiare lavoro.

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