Prospettive

Terzulli (Sace): «Crisi in Cina, una chance per le aziende italiane»

Il capo economista della società attiva nell’export credit a EconomyUp: «Chi vuole entrare nel mercato cinese non si fermi ora: nel medio-lungo periodo ne trarrà vantaggi. Ma il territorio va presidiato studiando strategie e stringendo partnership con i locali»

Pubblicato il 24 Ago 2015

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“La crisi cinese? Nel medio-lungo termine può persino essere un’opportunità per le imprese italiane”. A dirlo a EconomyUp è Alessandro Terzulli, capo economista di Sace. “Non bisogna fermarsi di fronte alle difficoltà – prosegue il chief economist della società controllata al 100% da Cassa Depositi e Prestiti – perciò chi sta valutando in questo periodo la possibilità di esplorare il mercato cinese non dovrebbe evitare di farlo, o rimandare, a causa del recente crollo della Borsa di Shangai e della svalutazione dello yuan. Certo, i progetti di internazionalizzazione sono diventati molto complessi e in Cina ci si deve andare preparati, predisponendo business plan, strategie e conoscendo le caratteristiche del mercato. Ma a lungo termine il cammino potrà rivelarsi vantaggioso”.

Eppure sui mercati finanziari internazionali si è diffuso il panico.

Non è una novità che l’economia cinese sia in fase di rallentamento: in parte è fisiologico per un’economia cresciuta a ritmi così tumultuosi nell’ultimo decennio. La crescita è stata trainata dall’export e dagli investimenti, ma nel frattempo in alcuni settori si è verificato un eccesso di capacità produttiva sia rispetto alla domanda interna sia a quella estera, per esempio nel settore dell’acciaio. Di fatto, negli ultimi anni, si sono create tre pericolose ‘bolle’.

Quali?

La bolla edilizia. Il mercato immobiliare è cresciuto a dismisura, così i prezzi sono schizzati in alto, la domanda è scesa, un numero consistente di immobili è rimasto vuoto e il settore delle costruzioni è andato in crisi. Settore che, guardacaso, è importante anche per incentivare la domanda di acciaio di cui dicevamo prima. Ora si costruisce meno e la bolla edilizia sembra cominciare a sgonfiarsi. Ma c’è un’altra bolla, quella della finanza locale. Il debito pubblico del Paese non è allarmante, ma invece lo è il livello di indebitamento degli enti locali, che negli anni si sono lanciati in attività non propriamente funzionali o non attinenti. D’altra parte la crescita economica a ritmi elevati, basata sulle esportazioni, ha consentito alla Cina di accumulare riserve internazionali, un buon ‘cuscinetto’ al quale fare ricorso in casi di ulteriori shock finanziari. Da ultima è arrivata la bolla del mercato finanziario. Da inizio anno l’indice della Borsa di Shangai era cresciuto fino a un picco massimo di circa + 140%. Se un’economia cresce tantissimo, le prospettive di profitto per le imprese aumentano e può avere senso che cresca parallelamente il valore dei loro titoli. Ma se c’è un rallentamento, pensare che il loro titolo si apprezzi crea qualche contrasto. La nostra idea è che sia nata una bolla sui mercati finanziari ma siano state anche avviate le correzioni.

La svalutazione dello yuan non è un sintomo della gravità della situazione?

Non si è trattato di una svalutazione fortissima e le stesse autorità hanno annunciato l’intenzione di non voler attuare una svalutazione significativa. L’intenzione era passare a un regime di cambio più flessibile. In un arco di tempo più lungo è una mossa che va vista positivamente. Forse la svalutazione proseguirà, ma per ora è quantomeno incauto, come sta facendo qualcuno, parlare di guerre valutarie. La nostra visione è guardare all’economia reale cinese.

E in quale stato di salute è l’economia reale?

È una medaglia a due facce: da una parte c’è un’economia che rallenta, o perlomeno cresce in misura inferiore rispetto al passato. Per continuare deve cambiare la sua struttura. Ma l’altro lato della medaglia è che il Paese è ancora relativamente robusto, ha sfide importanti davanti ma ha anche gli strumenti per affrontarle. Per esempio le riserve internazionali di cui parlavo prima. La nuova classe politica, insediatasi nel 2013, ha deciso di utilizzare le risorse in modo più efficiente rispetto al passato. Quando scoppiò la crisi mondiale nel 2009, per evitare contraccolpi interni il governo cinese attuò una politica di forte incremento della spesa pubblica per incentivare i consumi: in tre anni alla spesa pubblica fu dedicato circa il 14% del Pil, Prodotto interno lordo. Ma fu un intervento probabilmente troppo forte e generalizzato. Oggi il governo, pur sapendo che è in grado di intervenire, si sta mostrando più cauto. Parliamo comunque di un mercato dotato di ingente liquidità. Di fronte alle recenti ‘bizze’ del mercato finanziario, l’autorità di vigilanza della Borsa è intervenuta immettendo liquidità nel sistema e acquistando titoli, anche se poi ha fatto sapere che il sostegno non sarebbe stato infinito. E a quel punto è ripartito il nervosismo.

Cosa succederà ora alle aziende italiane che esportano in Cina?

Nel medio-lungo termine la Cina è mercato importante e tale rimarrà. Per chi lo presidia, non solo con l’export ma anche attraverso postazioni locali, questa situazione potrebbero addirittura aprire occasioni favorevoli. Con la svalutazione e la domanda che rallenta si può pensare a strategia più attiva. Difficile pensare che si possano conquistare i mercati cinesi solo con un export passivo, cioè limitandosi a spedire merci. Ci deve essere una presenza locale, possibilmente anche con partner commerciali locali che aiutino a far da tramite con le autorità del posto. Per chi già c’è, lasciare ora sarebbe un errore: è il momento di rafforzare la strategia. Del resto esportiamo il 2,6% delle nostre merci in Cina.

Cosa chiedono i cinesi alle aziende italiane?

La classe media cinese cresce ed esige sempre maggiore qualità. A livello di commercio estero e esportazioni nel primo semestre 2015 il nostro export verso la Cina è stato praticamente stabile, registrando un modesto + 0,8%. Ma la moda (tessile, abbigliamento, pellicceria, calzature ecc. ecc.) è salita del 15% e il comparto alimentare del 30%. I settori in decrescita a causa della crisi sono quelli che riguardano i beni di investimento. Per esempio la meccanica strumentale, nei primi sei mesi dell’anno, è scesa del 10%. Resta però il primo settore di esportazione italiano verso la Cina, anzi verso tutto il mondo.

E che fine faranno le grandi aziende italiane che, specialmente negli ultimi anni, hanno scommesso sull’export verso la Cina?

Alcuni effetti negativi ci sono stati sulla domanda sui beni di consumo. Si temono gli effetti a breve termine, ma non sono in dubbio le potenzialità di medio-lungo termine. D’altra parte la Cina è un avamposto, dalla Cina si arriva al sudest asiatico. Vero è che sta convenendo sempre più delocalizzare nei vicini Vietnam, Pakistan o Bangladesh. Ma la mera ricerca di costi produttivi minori non è una buona strategia. Se vado in Cina, è bene che vada per produrre, per fare joint venture, per portarvi parti della produzione e così presidiare meglio il mercato. Le delocalizzazioni più spinte non hanno avuto buon esito.

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