IL DIBATTITO

Startup, quando è il momento di staccare la spina?

A volte gli startupper si affezionano alle loro business ideas anche quando sono in evidente agonia. Ma dopo quanto tempo è necessario decretarne la fine? Un anno? Tre? L’abbiamo chiesto a investors e gestori di acceleratori

Pubblicato il 16 Mag 2014

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Quando è il momento di staccare la spina a una startup? Il tasso di fallimento delle neo-imprese innovative è per sua natura molto elevato, dal momento che innovazione significa anche e soprattutto sperimentazione: le statistiche più accreditate lo collocano tra il 75 e il 90%. “Fallire” quindi è altamente probabile e, come insegnano gli Internet evangelists, spesso è necessario per poter ripartire e dare vita a qualcosa di migliore. Eppure non è raro assistere all’agonia di una startup: i founder si affezionano alla loro idea di business, la portano avanti contro tutto e tutti e, anche quando è evidente che non funziona, non riescono ad “uccidere” la creatura a cui hanno dedicato tempo, soldi ed energie. Ma quanto tempo deve passare perché si possa decretarne la fine? Un anno? Tre? O dipende dai casi? Qualche suggerimento può aiutare. Li abbiamo chiesti a investors, gestori di incubatori e acceleratori, docenti universitari e start upper con fallimenti alle spalle.

“Innanzitutto non parlerei di fallimento” premette Alberto Onetti, docente di Management ed imprenditorialità all’Università dell’Insubria e Chairman di Mind the Bridge Foundation, fondazione californiana per lo sviluppo dell’imprenditorialità in Italia. “Una startup innovativa – prosegue – è piuttosto un progetto temporaneo in cerca di un business model. Quindi non esiste il fallimento, esiste una ricerca che può andare o meno a buon fine. Gli startupper devono prevedere di investire tempo e soldi in progetti che, lo sappiamo, hanno rischi di realizzazione molto elevati. Vero è che oggi negli Usa si sta diffondendo una nuova modalità di fare sperimentazione di impresa: le lean startup, startup snelle. C’è la possibilità di avviare progetti a costi bassissimi grazie alle opportunità tecnologiche come il cloud o l’uso di molti prodotti software a costo zero”.

Ma quand’è che l’aspirante capitano d’industria deve dire addio ai pochi (o molti) soldi investiti e tirare i remi in barca? “L’auspicio – dice Onetti – è che fallisca il prima possibile. “Fail fast”, è lo slogan della Silicon Valley. Se una cosa non va, tanto vale che si capisca il prima possibile. Spesso si nota un accanimento terapeutico: è tipico di chi fa un progetto d’impresa e ci si affeziona. Una buona prassi – suggerisce il docente – è tenere un atteggiamento distaccato e rivolgersi a soggetti terzi che riescano ad aiutare in questa valutazione. Ma alla fine la decisione la può prendere solo il founder, anche perché è lui che conosce meglio di tutti la sua creatura e i problemi correlati. Un altro metodo è darsi degli obiettivi e verificare via via se si sono realizzati, ma anche questo non è risolutivo perché le cose cambiano a un tasso di velocità tale che gli obiettivi diventano difficilmente parametri assoluti”. In ogni caso Onetti non si sente di quantificare un periodo preciso per la durata in vita di una startup. “Entriamo nella sfera personale”. Però sottolinea: “L’importante è non demonizzare il fallimento, ma nemmeno fare delle startup una fabbrica dei sogni”.

Anche Andrea Di Camillo, founder del fondo P101 e dell’acceleratore d’impresa Boox, ricorda che “nell’accezione americana fallire si intende in realtà non avere successo. Quindi se parliamo di fallimento vero e proprio – rimarca – non penso ci sia una data oltre la quale non si possa andare, se non, molto banalmente, quella in cui si portano i libri in tribunale. Se parliamo di successo – aggiunge – credo invece che l’orizzonte in cui si possa valutare un progetto sia quello dei tre anni: credo sia difficile, sotto questa soglia, poter dare una valutazione di una società che parte con un team sensato, un progetto percorribile e qualche supporto finanziario. A volte ci sono realtà particolarmente brillanti che in un periodo minore di tempo dimostrano di poter andare molto lontano, ma sono ancora delle eccezioni”.

La questione è appunto: per quanto tempo continuare a cercare il modello di business “giusto”? “Dipende da diversi fattori” risponde Carmelo Cennamo, docente di Strategia e imprenditorialità all’Università Bocconi di Milano. “Bisogna vedere se la startup è digitale o manifatturiera, generalista o specializzata, se è un nuovo modello di business nel settore o innovazione di prodotto….Ad esempio, una startup che introduce un nuovo modello di business (l’outlet online di capi firmati) potrebbe richiedere più anni per poter “educare” clienti e fornitori al nuovo servizio e ai benefici. Amazon – prosegue – ha impiegato quasi 10 anni a consolidare il suo modello di business, andando tra l’altro spesso contro quanto richiesto da investitori; la stessa italiana Yoox ha speso un decennio per poter costruire un business florido per poi quotarsi in borsa. Ma possiamo dire che per startup digitali, se non accade nulla di rilevante nel giro di due-tre anni, forse non c’è il potenziale per creare un business di successo né l’idea fondante la startup, o forse non è il team giusto a portarla avanti”.

Da “meno di un anno” a “pochi anni” è il periodo indicato da Mario Cantamessa, presidente dell’incubatore I3P del Politecnico di Torino, che spiega: “Difficilmente le startup attuano fedelmente il piano originario, ed è addirittura auspicabile che modifichino qualche volta la loro strategia. Pertanto si può dire che la startup sia fallita quando gli azionisti non riescono più a individuare un riposizionamento strategico sostenibile o anche solo adeguato alle loro attese. Di conseguenza ci può essere il caso in cui un team imprenditoriale si accontenta di un ‘piano B’ meno attraente, ma continua lo stesso, e quello in cui il team preferisce invece staccare la spina al progetto”. Quanto ai tempi, Cantamessa sostiene che “variano in base al tipo di progetto e ai fattori di incertezza, e possono andare da meno di un anno per progetti digitali, sino a pochi anni per progetti industriali”.

Non indica specifiche tempistiche Luigi Capello, founder e ceo di LVenture Group, holding di venture capital che finanzia tra le altre le startup accelerate da Luiss Enlabs, ma sottolinea: “Se in cassa non ci sono soldi per pagare le spese di gestione e nessuno è disposto a metterceli, ecco che probabilmente è arrivato il momento di dire stop”. Dal suo osservatorio di investitore, Capello afferma che “la valutazione del fallimento di una startup viene normalmente effettuata in base alla sua disponibilità di cassa ed alla sua attrattività agli occhi degli investitori nei round successivi. L’attenzione degli investitori si concentra sui risultati concreti raggiunti sino a quel momento, ed è chiaro se non si sono rispettati gli obiettivi, magari anche più volte, è difficile avere credibilità. Quello è il momento critico. Naturalmente, dal punto di vista dell’investitore, è di fondamentale importanza capire per tempo come stanno andando le cose, se il problema è momentaneo e valutare con la dovuta attenzione le eventuali possibilità, come spesso succede, che la startup possa trovare un sua nuova area di sviluppo. È pertanto necessario – conclude – che l’investitore debba lavorare per tempo a contatto con la start up, fornire supporto ed avere prontezza dell’andamento”.

Si sbilancia invece sulla questione “tempistica” Andrea Dusi, già startupper con un fallimento alle spalle e ora amministratore delegato del Gruppo Wish Days, conosciuto soprattutto per i cofanetti regalo Emozione3, nonché creatore del blog “startupover”, dove racconta le storie di neo-imprese che non ce l’hanno fatta. “Ritengo che una startup abbiamo bisogno di almeno 24 mesi dalla partenza per capire se il modello funziona e prende piede” dice. “Al termine di questo arco di tempo è necessario valutare il fatturato, il trend di crescita, il costo di acquisizione di un cliente. Se tutto questo è negativo l’azienda, semplicemente, non esiste più”.

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