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Start up, quei numeri talmente belli da far temere la “bolla”

Il Who’s who dell’ecosistema italiano rivela una quadro per certi versi entusiasmante e per altri preoccupante. Al punto da provocare l’allarme di un personaggio del calibro di Riccardo Donadon: se sbagliamo adesso, rischiamo di penalizzare l’intero settore e di perdere tempo prezioso. Come accadde all’inizio del secolo con la New Economy

Pubblicato il 26 Ott 2013

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Riccardo Donadon

Che cosa ci dice il Who’s Who dell’Italian Startup Ecosystem compilato dagli Osservatori del Politecnico di Milano e ItaliaStartUp in collaborazione con SMAU e con il supporto del Ministero dello Sviluppo Economico? La prima cosa, solo apparentemente ovvia, è che esiste ormai un ecosistema e con questo report si presenta alla comunità internazionale, visto che è stato integralmente redatto in inglese. 1227 start up innovative, così come previste dal decreto di fine 2012, 97 tra incubatori e acceleratori, 65 spazi di coworking, 33 competition e 32 investitori istituzionali sono numeri significativi per un Paese dove fino a pochissimi anni fa la parola startup era esclusiva di pochi eletti e totalmente sconosciuta al lessico politico.

Questi numeri, seppure frutto della prima release di una mappatura meritoria ma da affinare e arricchire, sono talmente entusiasmanti da essere quasi preoccupanti. 97 tra incubatori e acceleratori per 113 startup finanziate potrebbero far pensare a una, diciamo così, “produttività” molto bassa e a un mercato asfittico. A entrare nel dettaglio però si scoprirebbe che le vere fabbriche di start up sono forse una decina e in tutti gli altri casi si tratta di capannoni contemporanei dove si vendono spazi e servizi. Questa “escalation di soggetti di supporto” mette paura a un personaggio del calibro di Riccardo Donadon, che certo conosce uomini e cose e soprattutto ha memoria storica. Perché il fondatore di H-Farm, che è anche presidente di Italia Startup, ha paura? Perché ricorda bene quel che successe a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo con la New Economy, come si diceva allora. Un’autoeccitazione di sistema senza una reale consistenza industriale ed economica che produsse la “bolla” esplosa sul fare del 2000. Furono necessari cinque anni buoni per riprendersi dallo choc e mentre altrove si ponevano le premesse per la nascita della Nuove Multinazionali Digitali, da noi si faceva espiazione e autocritica. L’allarme di Donadon non è da sottovalutare: attenzione che non accada anche con le start up. Se sbagliamo adesso, rischiamo di sentirci dire, fra qualche anno, che le start up non servono e sono anzi dannose. Sarebbe un pericoloso ritorno indietro e una letale perdita di tempo.

Tanto è preoccupato Donadon da proporre di non usare più la parola start up, prima che venga inflazionata, e di parlare invece di piccole (e medie) imprese innovative in linea con la tradizione del tessuto industriale italiano. Non è solo una questione nominale. C’è anche una sostanziale svolta concettuale. Con le app e la creatività digitale rischiamo di entrare in un’area affollata, con concorrenti di tutto il mondo e di solito in vantaggio se non altro per questioni di territorio (Google&C quando devono comprare guardano prima negli Usa, poi in Israele e dopo, forse, altrove). Quindi va bene il digitale ma innestato nelle nostre eccellenze produttive grazie alle Nuove Pmi Innovative che possono fare la differenza e rendere unico e ancor più competitivo il Made in Italy. E’ un approccio di sistema all’ecosistema delle start up su cui vale la pena di riflettere. Per evitare di ritrovarsi solo con fotografie sbiadite di buone intenzioni, volenterosi progetti e qualche affare di breve respiro.

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