Silicon Valley, un universo isolato dal resto del mondo?

Crea innovazione e detta le regole del gioco nel settore hitech ma – avverte il settimanale The Economist – nella baia più famosa del mondo si rischia di vivere in un impero isolato dal resto del pianeta, nel quale l’unico vangelo è la tecnologia e i governi sono spesso considerati di intralcio al cambiamento

Pubblicato il 29 Lug 2015

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Unica e inimitabile, la Silicon Valley è ormai un marchio internazionalmente riconosciuto, sinonimo di connettività, tecnologia e innovazione. Un ecosistema che l’Europa ha cercato di replicare, con Silicon Fen (il centro tecnologico sviluppatosi intorno a Cambridge), Silicon Roundabout (il quartiere di Old Street a Londra che presenta un’alta concentrazione di imprese hitech), e ancora con lo scozzese Silicon Glen e Silicon Allee a Berlino. Ciò che, però, distingue la Valley di San Francisco da tutti gli altri agglomerati di startup e imprese tecnologiche è il potere di rivoluzionare i sistemi consolidati, la capacità di creare innovazioni e spingerle al di là dell’oceano, è la forza di un microcosmo che ormai detta le regole del gioco in tutto il mondo. Parliamo dell’area che si estende a sud della San Francisco Bay Area, coincidente con la Santa Clara Valley, nella contea californiana di Santa Clara, chiamata “Silicon” dagli anni Settanta, per la storica concentrazione di produttori di semiconduttori e microchip (a base di silicio), attualmente sede di giganti del tech globale (Facebook, Google, Apple) e di tantissime aziende di hardware, software, fornitori di servizi in rete e startup, che insieme valgono più di tre miliardi di dollari. La Valley è sinonimo di creatività e di business disruptive (che cambiano l’ordine delle cose), come ci insegnano le storie di Uber e Airbnb che hanno rivoluzionato il modo di concepire i trasporti e le vacanze.

Periodicamente nell’occhio del ciclone, non soltanto per notizie di carattere finanziario, nell’ultima settimana la Silicon Valley è stata oggetto di analisi da parte del The Economist che, in una storia di copertina, ha sottolineato il rischio di autoreferenzialità di quello che definisce “l’impero dei geek” (in gergo gli appassionati di tecnologia). La Silicon Valley è il prodotto del capitalismo americano – scrive il settimanale inglese – in stretta concorrenza con Wall Street. Un fenomeno che ha attratto le migliori risorse delle università americane e i finanziamenti da tutto il mondo. Sebbene in America aleggi ancora lo spettro della bolla delle dotcom, il distretto tecnologico californiano ha dimostrato in questi anni di avere un modello di business più solido rispetto alle società degli anni Novanta. Innanzitutto perché le aziende hitech della Silicon Valley tendono a rimanere private più a lungo: nel 2014, le società che hanno deciso di quotarsi in Borsa avevano un’età media di 11 anni, più del doppio di quelle del 1999. Ciò significa che il rischio è ripartito tra pochi investitori che, nella maggior parte dei casi, possono permettersi di sbagliare e soprattutto possono cambiar rotta in fretta se si rendono conto che le promesse iniziali non vengono mantenute. Dall’altra parte, però, la scarsità di offerte pubbliche iniziali corrisponde alla minor trasparenza e dà spesso adito a comportamenti irresponsabili. Per i privati non c’è l’obbligo di pubblicare bilanci certificati e questo porta ad alcune sopravvalutazioni, soprattutto tra gli unicorni, le società valutate più di un miliardo di dollari.

I cosiddetti geek della Silicon Valley – dice il The Economistsembrano vivere in un impero isolato dal resto del pianeta, nel quale l’unico vangelo è la tecnologia e i governi sono spesso considerati di intralcio all’innovazione. Finora, nell’immaginario comune godono di una buona reputazione perché la gente è contenta di poter prenotare automobili tramite un’app, di ascoltare musica in streaming e di sfruttare i progressi della tecnologia, e sa che tutto questo proviene dalla Valley. Ma i conflitti sono dietro l’angolo: Uber ha già incontrato resistenze da parte delle associazioni di tassisti di tutto il mondo, Facebook e Google sono entrate nel mirino delle autorità antitrust e Apple è attentamente sorvegliata per le sue mosse nel campo della musica in streaming.

Le regole sono regole per tutti e i giganti hitech non possono pensare di esserne al di sopra. Se vorranno partecipare ai tavoli per la definizione di leggi che non ingessino il progresso, dovranno imparare ad adeguarsi ai mercati nei quali operano, senza scontrarsi con le norme in vigore. L’atteggiamento snob che molti critici rimproverano loro include anche una certa reticenza verso le tasse. Dalla Silicon Valley passano miliardi di dollari, si erigono business di successo, spesso anche grazie all’utilizzazione di dati personali, ma non sempre questo corrisponde a un adeguato contributo fiscale. Il rischio è che i consumatori di tutto il mondo possano sentirsi sfruttati, depauperati della loro privacy, a vantaggio di poche imprese di San Francisco che, per di più, non contribuiscono nemmeno al bene comune con le tasse.

Per questo motivo – avverte il settimanale – la Silicon Valley deve uscire dal suo isolamento, altrimenti potrebbe trasformare il potenziale creativo che la contraddistingue in una forma di elitarismo impopolare.

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