La provocazione

Mazzucato: “Basta con il mito delle startup, lo Stato finanzi l’innovazione”

L’economista dell’Università del Sussex: “In Uk l’ossessione per le Pmi ha prodotto scarsi risultati. I soldi pubblici devono andare alle imprese innovative, come in Silicon Valley: tutta la tecnologia dell’iPhone è finanziata dal governo”

Pubblicato il 04 Mar 2014

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Non bisogna essere ossessionati dal “mito” delle startup, ma occorre allargare lo sguardo e sviluppare un ecosistema innovativo nel quale le imprese appena nate riescano a crescere attraverso un’interazione tra investimenti pubblici e privati.

A scriverlo è Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’Innovazione allo Spru (Science and Technology Policy Research Centre) dell’University of Sussex nel Regno Unito. Invitata da The Economist (qui l’articolo dell’economista, ripubblicato sul sito dell’associazione “Paolo Sylos Labini”) a commentare il “boom” delle startup in Gran Bretagna, l’economista italiana si è concentrata in particolare sulla realtà inglese, ma ha fatto anche confronti con quella statunitense, cinese e di altre parti del mondo, per concludere sostanzialmente che, se vuole davvero diventare numero uno nell’innovazione, uno Stato deve alimentarla attraverso una politica capillare di sostegno alla ricerca e alla nuova imprenditorialità.

“La Gran Bretagna è affascinata dall’idea di una Tech City – dice l’esperta – perché ritiene di essersi fatta sfuggire quel tipo di cultura ‘imprenditoriale’ che ha alimentato la Silicon Valley”. Da qui la corsa a finanziare le piccole e medie imprese (pmi) e le startup. La docente cita una ricerca dell’Università di Cambridge del 2008 secondo la quale il governo inglese spende direttamente o indirettamente circa 8 miliardi di sterline (13 miliardi di dollari) ogni anno per le pmi, più di quanto investa nel corpo di polizia o nelle università. Ma dai numeri forniti da Mazzuccato emerge che la strategia non sta dando i frutti desiderati. Pmi e startup finanziate “non contribuiscono in modo particolare all’economia britannica in termini di posti di lavoro, produttività e innovazione”.

Ecco i numeri: solo l’1% delle nuove imprese riesce a vendere merci per più di un milione di sterline dopo l’inizio dell’attività. Altro discorso, sottolinea Mazzuccato, sono le poche neo-aziende ad alto tasso di innovazione, il 6% del totale delle pmi in UK, che “dovrebbero realmente essere supportate” ma che, a suo dire, “non beneficiano direttamente del ‘mucchio’ di finanziamenti che vanno a pmi e startup”.

Mazzucato parla di un’ “ossessione malriposta” degli inglesi verso pmi e startup “in termini di capacità di generare innovazione e crescita. Io ritengo – dice – che non debbano essere enfatizzate le startup o gli imprenditori in quanto tali, ma l’ecosistema innovativo entro il quale operano e dal quale dipendono”.

La docente fa poi il paragone con gli Usa, dove “molte aziende della Silicon Valley hanno beneficiato direttamente di finanziamenti early-stage erogati dal governo così come della possibilità di produrre utilizzando tecnologie finanziate attraverso contributi pubblici”.

A questo proposito cita l’iPhone: “Ogni tecnologia che utilizza ha ricevuto finanziamenti statali, da Internet al Gps, dal display touch-screen al Siri”. Tra i big che hanno ricevuto fondi pubblici early-stage, oltre a Apple ci sono Compaq e Intel.
Quindi Mazzucato affronta quella che definisce “un’altra ossessione nel mondo delle startup”, ovvero il ruolo del venture capital nel sostenere l’innovazione. “Inizialmente le imprese nella Silicon Valley non erano finanziate principalmente con venture capital. È arrivato dopo l’erogazione di fondi pubblici dal Dipartimento della Difesa e della Sanità e, più di recente, dal Dipartimento dell’Energia”.

Inoltre, a suo dire, i finanziamenti da venture capital “non sono in grado di fornire i finanziamenti a lungo termine necessari per le innovazioni più radicali, perché focalizzati su exit vantaggiose, di solito attraverso un’Ipo o la vendita a un’azienda più grande entro 3-5 anni. Ma l’innovazione spesso ha bisogno di 15-20 anni di tempo”.

Non sono solo gli Usa, rileva Mazzucato, a erogare finanziamenti pubblici alle startup innovative. In Cina il governo ha emanato un piano quinquennale che prevede 1,7 trilioni di dollari di investimenti in vari settori tra cui la nuova generazione di IT e le tecnologie “verdi”. E la Banca per lo Sviluppo Cinese sta investendo decine di miliardi di dollari nell’economia “green”. Analoghe iniziative vengono realizzate in Germania e in Brasile.

Per tornare agli Usa, Mazzucato fa l’esempio di Elon Musk, l’ultimo “eroe” della Silicon Valley, che ha lanciato Tesla, azienda produttrice di automobile elettriche, grazie a un prestito governativo garantito di 500 milioni di dollari.

“Ciò di cui abbiamo bisogno – conclude l’autrice del libro “The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Sector Myths” – non sono tante piccole startup, o l’ossessione di finanziare le pmi, ma un ecosistema per l’innovazione. Questo richiede un settore pubblico che sia in grado e voglia investire vaste somme di denaro su formazione, ricerca e su quelle aree emergenti di cui non si occupano i privati perché servirebbe un’alta intensità di capitale e c’è un rischio elevato legato alle tecnologie e al mercato. Servono poi grandi aziende che reinvestano i profitti in capitale umano e ricerca e sviluppo, un sistema finanziario che guardi all’economia reale e non solo a se stesso, una politica fiscale che ricompensi gli investimenti a lungo termine. Serve inoltre una politica migratoria che attragga i migliori cervelli da tutto il mondo e una politica competitiva che sfidi gli incumbent pigri piuttosto che consentire loro prezzi elevati e sussidi parassitari”.

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