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2017, l’innovazione secondo il guru dell’open source

Le grandi aziende si stanno rendendo conto che devono fare le cose in modo diverso per affrontare la digital disruption, dice a EconomyUp Jim Whitehurst, Ceo di Red Hat, multinazionale del software libero, e autore di “The Open Organization”. Cambiano i processi di decision-making, nasce il Chief Catalyst e i dipendenti diventano “imprenditori”

Pubblicato il 03 Gen 2017

Jim Whitehurst, CEO di Red Hat

Jim Whitehurst, Ceo di Red Hat

“Le aziende tradizionali hanno sempre studiato piani strategici, ma il mondo sta cambiando così velocemente che non si può più perdere tempo in strategie: bisogna fare in modo che la propria organizzazione sia in grado di reagire con tempismo ai cambiamenti in atto per poter prendere le giuste decisioni. Per questo l’organizzazione deve essere aperta, una open organization”. Lo dice a EconomyUp Jim Whitehurst, Presidente e Ceo di Red Hat, una delle pochissime aziende di software, e certamente l’unica open source, con un fatturato vicino ai 2 miliardi di dollari. Whitehurst, che è uno degli imprenditori hi-tech più noti in Silicon Valley e nel mondo, ha scritto un libro che si intitola appunto “The Open Organization”, dove descrive il nuovo modello manageriale che sta prendendo piede.

“The Open Organization”, 7 modi per aprire l’azienda al cambiamento

A EconomyUp spiega come sta cambiando il processo di decision-making, quali figure professionali stanno emergendo, quali caratteristiche devono avere i dipendenti per adeguarsi ai cambiamenti. Ma anche i trucchi che usa nei colloqui di lavoro, cosa pensa dell’attitudine all’innovazione della vecchia Europa e cosa del nuovo presidente statunitense Donald Trump. Che, per il momento, non gli appare molto “open”.

Il 2017 sarà l’anno dell’open organization?
Certamente ci sarà sempre più attenzione, da parte delle aziende, al modo in cui devono organizzare il proprio business per avere successo nella digital disruption. È affascinante per me vedere come sempre più Chief Innovation Officer (Cio) di grandi compagnie si stanno confrontando con il problema. Le imprese tradizionali erano abituate a elaborare piani strategici: decidevano cosa volevano fare e cominciavano a delineare le strategie per farlo. Era un buon lavoro in un mondo che era sufficientemente lento, o comunque abbastanza prevedibile, da consentire la stesura di piani. Il mondo di oggi si sta muovendo a una tale velocità che è difficile pianificare. Perciò, invece di costruire all’interno della propria organizzazione la capacità di pianificare e di eseguire, occorre costruire la capacità di farla reagire alle condizioni di un mercato in continuo mutamento.

Le aziende lo hanno capito?
Ho incontrato molti Cio in giro per il mondo che vogliano parlare di questa teoria e applicarla nel loro settore di attività. Preferirei non fare i nomi, ma posso dire che di recente ho parlato con il management di una grande società di assicurazioni tedesca, con una delle più grandi banche al mondo e una società attiva nella sanità. Sono settori molto tradizionali che stanno cambiando molto rapidamente. Per esempio nei servizi finanziari c’è la digital disruption di PayPal e la disruption tecnologica dei bitcoin, nella sanità la manipolazione del genoma umano e così via. Le grandi aziende stanno davvero cominciando a rendersi conto che devono fare le cose in modo diverso.

Finora ha parlato di grandi aziende. E le startup?
Le startup cominciano già il loro percorso imprenditoriale in modo molto aperto: in una startup ci sono tante persone in un’unica stanza e in generale le loro interazioni sono più importanti del sistema che mettono in atto. Il problema è che, via via che si ingrandiscono, le startup cominciano a pensare di dover mettere in azione tutti i processi e i sistemi che consentano loro di scalare. Il mio suggerimento è: “No, non cercate di crescere”. Quello che invece devono fare è rimanere capaci di lavorare insieme in una stanza, comunicare e gettare idee nel mucchio. Non certo, faccio un esempio, adottare il processo che adottò la General Motors nel 1940 per poi applicarlo alla startup. Certamente, una volta cresciute, le giovani società innovative devono pensare a rafforzare gli strumenti a propria disposizione, ma non devono perdere quelle caratteristiche che hanno consentito loro in primis di innovare.

Come cambia il processo di decision-making in una open organization?
In un’azienda tradizionale alle persone vengono assegnate precise responsabilità, c’è un dipartimento di pianificazione strategica ed è molto chiaro chi deve prendere determinate decisioni. Per esempio si sa chi deve licenziare o assumere. In un’organizzazione più aperta si lascia che le decisioni siano un po’ più “sciolte” e libere. Il concetto è: come riesco a coinvolgere più persone nel mio processo di decision-making? Facile: riconoscendo che una buona parte di questo processo non è solo prendere decisioni ma coinvolgere le persone.

Non si rischia di creare confusione tra i ruoli e rendere tutto più complicato?
Prima di tutto deve essere ben chiara la distribuzione dei ruoli. Si cercano molti punti di vista, si ascoltano tutti, si colgono spunti, ma avere voce in capitolo non significa avere a disposizione un voto. Certo non è una procedura facile. Ma se le persone che vengono ascoltate si sentono inizialmente coinvolte, è poi più facile portarle ad eseguire il progetto che è stato inizialmente condiviso. È come in una famiglia: non ci può essere uno che decide per tutti in totale autonomia, ognuno deve dare il proprio contributo. Nelle aziende tradizionali serve meno tempo per prendere la decisione, questo è vero, ma ce ne vorrà di più per l’esecuzione. Nell’open organization è esattamente il contrario: si impiega più tempo nella prima parte, ma la seconda, quella dell’esecuzione, è decisamente più breve, perché le persone sono state prese in considerazione. E sappiamo che sono esseri umani con emozioni delle quali dobbiamo tenere conto.

Ai dipendenti di un’organizzazione aperta è richiesto di diventare “imprenditori”. In quale modo?
Devono essere tutti incoraggiati a sperimentare nuove strade. Quando sul mercato arriva un competitor l’organizzazione deve essere in grado di reagire. Questo naturalmente succede molto spesso, anzi in un certo senso ‘deve’ succedere, e tutti devono fare del proprio meglio per evitare che la propria azienda finisca schiacciata dalla concorrenza. Per questo nel nuovo modello di organizzazione è necessario creare un ambiente in grado di ispirare le persone a mettere volontariamente in campo i propri talenti e il proprio spirito di iniziativa. Bisogna assumere persone appassionate e rinfocolarne costantemente la passione.

Quali sono i suoi trucchi per scegliere i dipendenti migliori?
Di solito, a un colloquio di lavoro, non chiedo all’intervistato di descrivermi il suo curriculum ma di rccontarmi l’azienda nella quale è stato in precedenza, di definirne la struttura, di spiegarmi perché andava bene, se andava bene, o cosa c’era che non funzionava. Voglio essere sicuro che sia in grado di capire fino in fondo il contesto nel quale si è trovato e si trova. Uno può dichiararsi un genio del marketing retail ma non aver capito niente della struttura dove lavorava. Inoltre la maggioranza dei nostri dipendenti a Red Hat arriva attraverso referenze.

Nell’Open organization assume un ruolo centrale il Catalyst in Chief. Qual è il suo ruolo?
È una figura correlata al nuovo processo di decision-making e il suo ruolo è quello di catalizzatore di una comunità di clienti, contributori e partner. Faccio un esempio personale: un paio di anni fa a Red Hat ci siamo accorti che non eravamo abbastanza focalizzati su quello che dovevamo fare e su come lo dovevamo fare. Invece di assumere consulenti esterni che ci indicassero possibili soluzioni, ho cominciato a parlare con le persone all’interno dell’azienda. Ho parlato con tutti, con ogni dipartimento, ogni manager. Ho svolto una funzione di catalizzatore di tutte le informazioni e sollecitazioni raccolte in quel frangente. Non c’era niente di scritto o pianificato, è stato un processo mentale che mi ha portato a prendere le giuste decisioni. Così alla fine ce l’abbiamo fatta a superare l’impasse.

Nel 2017 il Catalyst in Chief soppianterà il Cio?
Posso solo dire che, se le società vogliono raggiungere il successo ed essere digitally oriented, non possono evitare cambiamenti nei profili dei loro leader.

Il concetto di open organization, nato negli Usa, si affermerà anche in Europa?
L’Europa è un po’ indietro rispetto a questi temi. Negli Stati Uniti c’è un atteggiamento più diretto, schietto e c’è maggiore predisposizione a mettere in dubbio l’autorità. È qualcosa che viene anche dal mondo delle startup, abituate a una comunicazione interna in piena libertà. Non è raro che, nelle prime settimane di lavoro a Red Hat, un dipendente mi critichi o mi dica quello che devo fare. In Europa ci sono strutture più gerarchiche, ma le cose stanno cambiando e sta crescendo la consapevolezza dell’importanza di aprirsi anche mentalmente all’innovazione.

E dell’Italia che visione ha?
Non la conosco abbastanza. Però devo dire che, ogni volta che facciamo un evento sull’open source in Italia, abbiamo la platea più vasta d’Europa. Gli italiani sono molto interessati a questi temi e con noi americani c’è una naturale affinità nell’approccio al business, più che con i tedeschi.

Negli Usa è diventato presidente Donald Trump. La Silicon Valley lo guarda con diffidenza. Lei cosa ne pensa?
Le tech companies in generale hanno una forza lavoro molto giovane e non prevedono confini di tipo fisico, etnico, geografico e neppure mentale. Accolgono e celebrano la diversità. Red Hat, per esempio, ha la maggior parte dei suoi introiti e della sua forza lavoro fuori dagli Stati Uniti. Vedremo cosa farà Trump. Ultimamente ha cercato di aprirsi alle nostre realtà, ma la sua strategia sarà da verificare sul campo.

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