Made in Italy, chi vince e chi perde? Scene da una trasformazione

La presentazione della ricerca Istat sull’industria italiana è stata l’occasione per far emergere gli ingredienti del successo: l’internazionalizzazione secondo Fabio Sdogati; l’innovazione secondo Massimo Colombo e la capacità di fare nuova impresa secondo Andrea Rangone

Pubblicato il 20 Mar 2014

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Quando una crisi mette a nudo le contraddizioni di un sistema e ne fa emergere i punti di forza può anche essere vissuta come un’opportunità. E a leggere in controluce i dati del rapporto Istat “Chi vince e chi perde: l’industria italiana oltre la crisi” (presentato al Politecnico di Milano da Roberto Monducci, direttore del dipartimento per i conti nazionali e le statistiche economiche dell’istituto nazionale di statistica), l’impressione che se ne ricava è proprio questa: se si dimenticano per un attimo le evidenze negative, si possono individuare chiaramente gli elementi che servono alle imprese tricolori per trasformarsi ed essere competitive.

Il primo ingrediente, visto il successo delle aziende che hanno saputo aumentare i loro ricavi all’estero, è la capacità di internazionalizzarsi. “Vincono le imprese che sanno innovare e sono capaci di andare lontano. Perde chi resta nei settori tradizionali e si ostina a competere ad armi pari con i Paesi emergenti: certe quote di mercato non possono essere difese”, commenta Fabio Sdogati, docente di Economia internazionale al Politecnico di Milano e direttore della divisione Executive education del Mip, la school of management dell’ateneo. “Ma è proprio ai Paesi emergenti che bisogna guardare per indirizzare il processo di internazionalizzazione. Non si deve parlare di esportazione. Internazionalizzare significa anche realizzare una parte della produzione fuori confine e saper sfruttare questo tipo di delocalizzazione, al di là del termine infelice, come strumento di crescita. Lavorare all’estero non è più un tradimento”.

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La ricerca Istat non fa riferimento alle aree geografiche. La sensazione, quindi, è che la competitività si misuri sulle singole aziende e non sui territori in cui esse agiscono. “Sono i dati stessi a confermare che a parità di settore e di territorio, il comportamento di una impresa può determinare la vittoria o la sconfitta sul mercato”, osserva Gianluca Spina, che del Mip del Politecnico è il presidente.

Una leva chiave per le imprese vincenti è stata, naturalmente, l’innovazione. Che in base all’analisi di Massimo Colombo, professore di Economia dell’innovazione al Politecnico, risulta “a tutto tondo”. Le Pmi del nostro Paese che hanno avuto la meglio, dice il docente, sono quelle che “hanno innovato i propri processi e i propri prodotti, sono andate a cercare clienti su nuovi mercati, hanno instaurato relazioni innovative con altre imprese e hanno fatto leva sul capitale umano per essere più competitive”. Peccato, aggiunge Colombo, che le piccole e medie aziende del nostro Paese non possano “contare sulle stesse risorse finanziarie e umane esterne di cui godono le Pmi di altri Paesi europei come per esempio la Svezia: senza risorse sufficienti, cambiare è più complicato”.

Al di là delle imprese già esistenti, non si può però prescindere dalla carica disruptive del digitale e delle startup per cavalcare questo momento di cambiamento. “In un’economia matura come la nostra, la dicotomia recessione- sviluppo è superata: siamo in una fase di profonda trasformazione”, sottolinea Andrea Rangone, docente di Strategia d’impresa e digital business al Politecnico di Milano. In molti settori ci sono componenti che crescono strutturalmente a prescindere dai periodi di recessioni. “La crescita dell’innovazione digitale non è un dato congiunturale, così come il fatto che in Paesi come gli Stati Uniti gran parte della nuova occupazione è creata da imprese fondate negli ultimi cinque anni”.In sostanza – ragiona Rangone – chi intercetta le direttrici del cambiamento e riesce a fare innovazione continua è destinato a vincere: “Per uscire dalla crisi bisogna guidare la trasformazione e riattivare la capacità e lo spirito imprenditoriali che hanno sempre contraddistinto gli italiani”.

Ma ci possono essere innovazione e crescita senza capitali? A giudicare dalla ricerca dell’Istituto nazionale di Statistica, la questione finanziaria non è determinante per decretare il successo delle imprese considerate “vincenti”. “Forse i piagnistei di alcune Pmi non rispecchiano la realtà”, ipotizza Marco Giorgino, docente di Finanza aziendale e Risk management al Politecnico. “A far parlare, probabilmente, è l’incapacità di affrontare la crisi attraverso leve industriali: d’altronde, le stesse imprese che si lamentano del difficile accesso al credito sono quelle che a fine anno distribuiscono più dividendi”.

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