La ricerca del Polimi

Big Data Analytics: è boom in Italia, mercato sopra i 900 milioni

Il mercato di settore nel 2016 è cresciuto del 15%. Exploit dei Big Data (+44%), la fetta principale resta la Business Intelligence (+9%). Le grandi imprese rappresentano l’87% del mercato, ma le startup non stanno a guardare

Pubblicato il 29 Nov 2016

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Tutti pazzi per i dati. Il mercato degli Analytics nel 2016 in Italia è cresciuto del 15%, raggiungendo un valore complessivo di 905 milioni di euro. È quanto emerge dalla ricerca Osservatorio Big Data Analitycs & Business intelligence della School of Management del Politecnico di Milano presentata oggi durante il convegno “Big Data: guidare il cambiamento, liberare il valore”. Un lavoro che ha coinvolto attraverso una survey oltre 950 CIO e analizzato oltre 300 player dell’offerta.

La Business Intelligence fa ancora la parte del leone in termini di volumi con un valore di 722 milioni di euro (+9% in un anno), i Big Data, seppur ancora marginali come valore (183 milioni di euro), sono la componente che mostrano la crescita più significativa (+44). Si tratta di un mercato in gran parte appannaggio delle grandi imprese, che si dividono l’87% della spesa complessiva, mentre le Pmi si fermano al 37%. Ma anche le startup stanno provando a giocarsi la loro partita: a livello globale dal 2012 a oggi infatti hanno raccolto complessivamente 3,18 miliardi di dollari.

Il 39% dei CIO italiani vede la Business Intelligence, i Big Data e gli Analytics come priorità di investimento principale nel 2017 per l’innovazione digitale. Ma emerge anche la necessità di nuove competenze e modelli organizzativi, di approcci tecnologici differenti e di una prospettiva progettuale di lungo periodo per lavorare con queste fonti informative: un’impresa su tre ha già inserito nel proprio organico uno o più data scientist, la cui presenza nelle aziende più all’avanguardia è cresciuta del 57% nell’ultimo anno. Tuttavia, il processo di trasformazione delle tradizionali imprese italiane in “big data enterprise” è ancora lungo: soltanto l’8% ha raggiunto un buon livello di maturazione, mentre il 26% ha appena iniziato il percorso e il 66% si trova in una situazione intermedia.

«La crescita del mercato Analytics, che vale oggi 905 milioni di euro, conferma come la capacità di diventare una ‘data driven company’ non sia più un’opzione per le imprese, ma una necessità per rispondere ai repentini cambiamenti del mercato – commenta Carlo Vercellis, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Big Data Analytics e Business Intelligence –. Governare i Big Data è ormai una priorità non solo per ottimizzare i processi, ma anche per sviluppare nuovi prodotti e servizi, per cogliere le opportunità derivanti dalla monetizzazione dei dati. In questo senso, dotarsi di nuove competenze di data science e di strutture organizzative innovative rappresenta una sfida non più prorogabile».

«Le grandi imprese si stanno muovendo nella direzione giusta, con una maggiore attenzione da parte del top management e una spesa crescente nei Big Data e negli Analytics nel loro complesso. E’ giunto il momento, oggi, di guidare il cambiamento, per liberare valore dai Big Data. – commenta Alessandro Piva, Responsabile della ricerca dell’Osservatorio Big Data Analytics e Business Intelligence –. Lo stesso non si può dire delle Pmi, che coprono oggi solo il 13% del mercato e solo nel 34% dei casi hanno dedicato a sistemi di Analytics una parte del budget ICT 2016: per le piccole realtà emerge ancora un ritardo nella creazione di competenze e modelli di governo delle iniziative di analytics e una limitata conoscenza delle opportunità”. Le grandi imprese Nelle grandi imprese (organizzazioni con più di 249 addetti) la diffusione di descriptive analytics è ormai un dato di fatto, presente nell’89% delle organizzazioni coinvolte, dove nell’80% dei casi l’utilizzo è ormai a regime almeno su alcuni ambiti applicativi. I predictive analytics risultano attualmente l’arena di maggior interesse, con una diffusione ampia, sebbene ancora confinata ad alcuni ambiti applicativi (30%) o in fase di pilota (29%). Ancora molto indietro i prescriptive e automated analytics, presenti rispettivamente nel 23% e nel 10% delle organizzazioni, perlopiù a livello di pilota».

I settori

Sebbene l’adozione di sistemi di Analytics sia una pratica ormai consolidata, soltanto l’8% delle grandi imprese si trova a buon punto nel processo di trasformazione da aziende tradizionali a “Big Data Enterprise”. Il 26% si trova allo stadio iniziale del processo, mentre il restante 66% si colloca in una posizione intermedia, con una governance già in fase avanzata per alcuni aspetti e ancora da avviare per altri.

Il settore più interessato nel mercato degli Analytics tra le grandi imprese è quello bancario (29%), seguito da manifatturiero (22%), telecomunicazioni e media (14%), Pubblica Amministrazione e sanità (8%), altri servizi (8%), GDO (7%), utility (6%) e assicurazioni (6%). Una classifica che si rovescia parzialmente se si prende in considerazione la crescita dei singoli settori, trainata da assicurazioni (+25%) e poi manifatturiero, banche e utility, con tassi di espansione compresi fra il 15% e il 25%, mentre servizi, telco e media, mostrano una crescita compresa fra il 10% e il 15%, e Pa e sanità, con tassi di crescita più modesta.

Le startup

Le startup dei Big Data e Business Intelligence operano in tre settori principali. Nel 16% dei casi fanno parte delle Enabling Technologies, infrastrutture che processano, memorizzano e analizzano i dati. Nel 36% operano negli Analytics Systems, sistemi non riconducibili univocamente a un ambito di utilizzo, ma con un’applicazione differente a seconda delle necessità del cliente. Nel 48% si occupano di Applications, soluzioni verticali di analisi rivolte a particolari ambiti applicativi.

Sono 31 le startup dei Big Data e Business Intelligence operanti in Italia. Il Nord è l’area con la maggior concentrazione (56%), seguita dal Centro (37%) e Sud e Isole (7%). Tra le regioni, il maggior numero si trova in Lombardia con il 33% delle startup, seguita dal Lazio con il 16% e Emilia Romagna con il 13%.

La professione più ricercata: il data scientist

Nel 2016, tre grandi aziende italiane su dieci dichiarano di contare nel proprio organico figure di data scientist, una quota stabile rispetto allo scorso anno. Ma aumenta la consapevolezza di questo ruolo che oggi nel 7% dei casi viene codificato formalmente (contro il 4% nel 2015). Inoltre, tra le aziende che hanno già inserito figure di questo tipo, crescono del 57% i full time equivalent allocati, a conferma di una progressiva maturazione organizzativa. L’Osservatorio ha realizzato un sondaggio internazionale 280 professionisti della data science, da cui emerge che questo professionista è una figura relativamente giovane con età media attorno ai 35 anni.

In America è un po’ più alta, attorno ai 40 anni, poiché a quelle latitudini il settore ha iniziato a svilupparsi prima; in Asia, dove lo sviluppo è un più recente, l’età media sale a 29 anni; l’Europa segue il trend medio. In base alla collocazione geografica varia molto la retribuzione: nei Paesi in cui queste competenze sono diffuse da più tempo come gli Stati Uniti lo stipendio supera spesso i 100mila dollari, mentre in Europa le retribuzioni sono più basse. I data scientist internazionali lavorano in aziende e settori molto diversi fra loro: il 26% in Information & Communication Technology, il 16% in Banche e Assicurazioni, il 14% nella PA e Sanità, il 20% nei Servizi, il 6% in Consulenza e il restante si suddivide tra GDO, Manifatturiero, Telco e Media, Advertising e Utility. La collocazione organizzativa del data scientist è molto varia e riflette il diverso grado di investimento in queste competenze delle imprese. Il 27% dei data scientist lavora nel settore IT, il 26% in un’unità funzionale tradizionale (Marketing, Operations, Finance o R&D) e ben il 26% in una funzione indipendente, specifica per le attività dei Big Data, creata come evoluzione del modello organizzativo dell’impresa. Un ulteriore 15% è consulente esterno, a testimonianza della complessità di internalizzare le competenze necessarie e comprendere il corretto mix di specializzazione.

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