Fisco & Web

Il ritorno della Google tax, effetti e reazioni

Il premier Renzi annuncia, dal 2017, la digital tax: ispirata a una proposta di Stefano Quintarelli (Sc), punta a una ritenuta del 25% sulle transazioni verso i big del digitale che erogano dall’estero servizi in Italia. Stimate nuove entrate per 3 miliardi di euro. L’accusa: «Tassa giustizialista e di facciata». La replica dei promotori: «È anti-elusione»

Pubblicato il 16 Set 2015

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L’aveva bloccata, aveva detto che se ne doveva discutere d’intesa con tutti gli altri Paesi europei durante il semestre italiano di presidenza Ue, poi l’Europa non ne ha discusso e ora il premier Matteo Renzi ha deciso: la Google tax, anzi la digital tax, come l’ha chiamata lui, si farà. “Dopo aver aspettato per due anni una legge europea – ha detto, ospite di Otto e mezzo su La7 – dal primo gennaio 2017 immaginiamo una digital tax che vada a colpire con meccanismi diversi per far pagare tasse nei luoghi in cui sono fatte transazioni ed accordi per i grandi gruppi economici che operano su internet come Google e Apple. Non per fare soldi – ha aggiunto – ma per una questione di giustizia, in attesa di una norma europea”. L’idea è di inserirla già nella prossima legge di Stabilità.

Digital tax, come potrebbe essere – Ancora non è noto come funzionerà nel dettaglio la nuova normativa, ma dovrebbe essere ispirata alla proposta di legge presentata il 27 aprile scorso dai deputati di Scelta Civica Stefano Quintarelli e Giulio Cesare Sottanelli e illustrata dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti. Lo stesso Zanetti ha rivelato che Renzi “ha accolto” mercoledì scorso lo schema sviluppato da Scelta Civica “in un incontro di natura politica”. In sintesi la digital tax punterebbe a una ritenuta alla fonte del 25% sulle transazioni indirizzate ai big del digitale (e non solo) che erogano dall’estero servizi in Italia. “L’impianto di base della nuova legge – ha spiegato Zanetti alla testata CorCom – prevede la libertà di stabilimento, ovvero non obbliga un’azienda a stabilire la propria attività in Italia, ma impone una tassa solo sui traffici generati in Italia in modo continuativo da organizzazioni stabili. Le aziende che operano con transazioni web con l’Italia da oltre 6 mesi, con fatturato superiore ai 5 milioni di euro, pagheranno una tassa del 25% su ogni transazione. Se però scelgono di stabilire l’attività in Italia, saranno sottoposte al regime fiscale italiano come qualsiasi altra azienda”.

Gli effetti – Secondo le stime di Quintarelli e Zanetti, la digital tax potrebbe portare nelle casse statali un gettito di circa 2-3 miliardi di euro. “Chiamarla digital tax – ha detto Zanetti – è accettabile come sintesi. In realtà si tratta di una misura anti-elusiva per imporre le tasse esistenti alla imprese che svolgono in Italia attività continuativa di commercio di prodotti digitali”.

La tempistica – I tecnici del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) sono al lavoro sul testo presentato da Sc. La normativa dovrebbe diventare operativa dal 2017, ma non è escluso che si possa partire già dal 2016.

La vicenda – A proporre per primo la web tax (o Google Tax) in Italia, sia pure con modalità diverse da quella attuale, è stato nel 2013 un gruppo di parlamentari di vari schieramenti guidati da Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio della Camera. La normativa prevedeva sostanzialmente la necessità di acquistare servizi di pubblicità visualizzabili sul territorio italiano solo da soggetti titolari di partita Iva italiana. Ma il percorso legislativo si è rivelato complesso e irto di ostacoli. Dopo essere stata inserita nella legge di stabilità per il 2014, la proposta è stata definitivamente abrogata a febbraio 2014 dal governo Renzi dopo una battaglia condotta anche all’interno del Pd tra renziani e non renziani. Ma contro la web tax si erano schierati in molti, tra cui buona parte degli operatori del web, mentre risultava gradita a editori quali Carlo De Benedetti. Il premier Renzi aveva assicurato che la questione sarebbe stata affrontata in sede di Unione europea, ma il semestre di presidenza italiana della Ue era trascorso senza che l’argomento fosse stato affrontato in sede comune. Nel frattempo altri Paesi europei si sono attrezzati per conto proprio (vedi sotto). Poi, ad aprile, la proposta Quintarelli.

Prime reazioni – Carlo Alberto Carnevale Maffè, della School of Management dell’Università Bocconi, su Twitter: “Annunciare tasse giustizialiste e cervellotiche in tv è l’autogol perfetto: blocca investimenti e assunzioni, semina incertezza”. Dario Stevanato, professore di diritto tributario dell’Università di Trieste, sempre su Twitter: “La digital tax avrà risultati solo di facciata perché destinata a soccombere davanti ai trattati bilaterali contro le doppie imposizioni. Non si può risolvere un problema di fiscalità internazionale esclusivamente attraverso soluzioni domestiche, poiché queste rischiano di rivelarsi un’arma spuntata”. Su Formiche.net, Quintarelli spiega: “Non si tratta di una tassa, ma di un meccanismo anti elusivo. Sicuramente non sarà applicata alle startup, ma solo a aziende con un giro d’affari superiore a una certa soglia e operanti da un certo numero di anni (…). Il nostro modello riprende quello proposto dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) attualmente in discussione. L’Italia può già muoversi per conto suo, perché i trattati glielo consentono, quindi non ha senso aspettare. Altri Paesi invece non possono. Di certo sarebbe un bene se ci fosse una soluzione uniforme”. Ma, sempre su Formiche.net, Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia, esprime il suo dissenso e ribadisce la necessità, alla quale peraltro faceva cenno anche Quintarelli, di aspettare le decisioni comuni prese in seno all’Ocse: “Sulla digital tax il premier ha voluto lanciare un sasso nello stagno per vedere di nascosto l’effetto che fa. Ma il lancio non è stato dei migliori. Siamo di fronte all’ennesimo annuncio estemporaneo buttato lì in un contesto dove l’oggetto della puntata era tutt’altro. Non è questo il modo di affrontare una tematica complessa”. Palmieri ricorda che il prossimo ottobre, nel G20 che si terrà in Perù, l’Ocse annuncerà le prime quindici azioni per la lotta all’elusione e ai paradisi fiscali. Per questo, a suo dire, “è sbagliato il metodo, ma anche il merito” della digital tax. “C’è un lavoro in corso, nel quale l’Italia comunque è protagonista perché il responsabile del progetto Beps (Base erosion and profit shifting) è un italiano, Raffaele Russo, e che ci consentirà di far parte di un contesto internazionale molto più efficace rispetto ad una azione solitaria”.

Come funziona la web tax negli altri Paesi – In UK è in vigore dal primo aprile una tassa del 25% sugli utili generati dalle società multinazionali con attività nel Regno Unito. Il nuovo regime stabilisce che le aziende con un giro d’affari superiore a 10 milioni di sterline debbano comunicare alla HM Revenue & Customs (l’equivalente delle nostre Agenzia delle Entrate e delle Dogane) se ritengono che la propria stabile organizzazione in Gran Bretagna possa determinare l’assoggettamento all’imposta sui profitti indebitamente deviati verso paradisi fiscali o aree geografiche a tassazione di comodo. Di diversa impostazione è la Google tax tedesca: nel 2013 la Germania ha varato una norma che prevede che Google o altre piattaforme paghino le royalties agli editori per la pubblicazione di contenuti, esentando però dalla tassa gli “snippets” (brevi frammenti di testo). Anche Francia e Spagna hanno successivamente adottato normative analoghe.

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