Incentivi

Patent box, ovvero come rilanciare l’Italia dei brevetti

Le agevolazioni fiscali per i redditi derivanti dallo sfruttamento di brevetti sono diffuse in tutta Europa. Introdurle in Italia significherebbe attirare la produzione di innovazione. Ecco come funzionano e perché aiuterebbero a migliorare la competitività del sistema Paese

Pubblicato il 23 Apr 2014

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Il patent box è un sistema di agevolazione fiscale per i redditi derivanti dallo sfruttamento di brevetti in un determinato territorio la cui implementazione nel Regno Unito a partire dal primo aprile 2013 ha consentito di riportare in patria (in Gran Bretagna) lo sfruttamento di brevetti del valore di milioni di sterline, con società come Glaxo che – in accordo con il governo – hanno investito nella realizzazione o nella riqualificazione di siti produttivi per la manifattura nel Regno Unito di prodotti brevettati.

In Italia, fino ad oggi si è preferito agevolare gli investimenti in ricerca e sviluppo (i vari crediti di imposta per la ricerca, la Tecno-Tremonti del 2004, il nuovo recente credito di imposta del DL145/2013). Gli incentivi fiscali di questo tipo tendono a incoraggiare le attività di R&D da parte delle imprese. Il patent box invece è un regime fiscale di favore che mira a incentivare le attività di sfruttamento di brevetti (più che le attività di ricerca). Il fine ultimo dei governi che implementano i patent box è quello di invertire la tendenza a localizzare la proprietà intellettuale in giurisdizioni estere (che spesso a loro volta garantiscono un trattamento agevolato per lo sfruttamento della proprietà intellettuale, come ad esempio Lussemburgo, Olanda e Belgio). In questo caso vengono agevolate sia le attività di R&D, sia lo sfruttamento degli intangibili generati.

L’implementazione di un regime di patent box in Italia potrebbe prevedere:
· un’aliquota fiscale ridotta sui redditi inerenti lo sfruttamento dei brevetti (royalties ma anche vendita di prodotti brevettati), come ad esempio avviene in UK o Francia;
· un’esenzione di parte del reddito derivante dallo sfruttamento dei brevetti (cosicché solo una percentuale viene tassata all’aliquota ordinaria), come in Belgio o Lussemburgo;
· un’estensione alle attività di sfruttamento del brevetto del credito di imposta previsto per le attività di ricerca e sviluppo.

Non si tratta di un’idea originale: la Gran Bretagna è arrivata buona ultima, mentre a partire dal 2001 il patent box è stato adottato – con diverse modalità e in relazione a diversi titoli di proprietà industriale – in Francia, Spagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Ungheria.

L’Italia – pur arrancando – continua ad essere il secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania. Certo, è forte la concorrenza dell’est Europa, e anche dell’est e del sud del mondo, concorrenza con la quale non possiamo competere sul piano dei costi. L’unica arma di difesa è l’innovazione: bisogna dunque creare le condizioni per portare in Italia la produzione di prodotti innovativi. Il patent box fa esattamente questo: rende più conveniente produrre in Italia prodotti coperti da brevetto, così migliorando la competitività del sistema Paese.

Certo, c’è (ci sarebbe) un impatto fiscale, c’è (ci sarebbe) una perdita di entrate fiscali. Si tratterebbe però di una perdita di redditi del tutto eventuali, potenzialmente più che compensata dal circolo virtuoso che sarebbe innescato da una misura di riduzione fiscale sui prodotti innovativi.

Non tutti in Europa sono d’accordo con il patent box. In occasione dell’adozione della misura da parte del Governo inglese il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha manifestato la propria disapprovazione per uno strumento che – a suo avviso – è capace di alterare i meccanismi del mercato interno. Inoltre è recente (Financial Times del 26 marzo 2014) la notizia che la Commissione Europea avrebbe chiesto chiarimenti al Ministero del Tesoro inglese nell’ambito di un’indagine informale volta a verificare se la normativa sulle agevolazioni fiscali in materia di proprietà industriale non possa configurare aiuto di Stato. Certamente la medesima sorte toccherebbe ad un patent box italiano, intrinsecamente pericoloso per gli altri Paesi dell’Unione ad iniziare dalla Germania, considerato che – come dicevamo – se la Germania è il primo Paese manifatturiero d’Europa, l’Italia viene subito dopo in classifica.

Non è una buona ragione per fermarsi. Anzi, la conoscenza dei rilievi mossi nei confronti della misura adottata in Gran Bretagna potrà esserci da guida per evitare di ripetere i medesimi errori. Certamente l’adozione di un patent box italiano richiede un governo forte, che possa sedersi al tavolo con l’industria in posizione paritaria e imporre le proprie condizioni (così ha fatto il Governo di David Cameron con le principali imprese interessate all’adozione della misura), e questo non è stato negli ultimi cinque anni.

Le mutate condizioni politiche consentono oggi alla politica di proporre lo strumento senza subalternità nei confronti dell’industria, con l’intento di aumentare la competitività del sistema Paese incidendo sulla pressione fiscale. Il che ben si iscrive nel programma del nuovo governo. Insomma, è tempo di patent box!

* Roberto Valenti è partner della practice Intellectual Property dello studio DLA Piper.

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