Scenari economici

L’economia dei lavoretti? È la crisi (e non la tecnologia) a produrla

Se si guarda al dato aggregato sul tasso di disoccupazione, il mercato del lavoro statunitense sembra essere uscito dalla grande recessione e tornato ai livelli pre-2007. Ma se si guarda alla composizione della forza lavoro occupata, emerge una realtà che fa paura: la gig economy, l’economia dei piccoli impieghi precari avanza

Pubblicato il 19 Apr 2016

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Les paroles seules comptent.
Les reste est bavardage.

Ionesco

Preistoria

Con un pezzo del 12 novembre 2015 ponevo in questo blog il problema di cosa stia a significare il termine ‘sharing economy’ o, in idioma natìo, economia della condivisione. Arrivai allora alla conclusione, preliminare e provvisoria, un sospetto o poco più, che le parole ‘sharing’ e condivisione’ siano probabilmente fuori luogo quando si parla di una buona parte delle attività che si fa ricadere sotto queste categorie: ad esempio, Airbnb non è condivisione, è subaffitto. In nero.

Poi, il 23 dicembre 2015, tornai sull’argomento guardando al problema dal punto di vista delle trasformazioni indotte da alcune di queste fattispecie sul mercato del lavoro e sulle forme del lavoro, e scoprii che al diffondersi della sharing economy corrisponde il diffondersi della gig economy, laddove un ‘gig’ è un lavoro che, fuori di metafora, è un ‘lavoretto’.

Infine, il 14 gennaio 2016 mi chiedevo se esistessero delle stime della diffusione dei lavori gig, almeno negli Stati uniti, e scoprivo che le stime variano enormemente tra uno studio e l’altro a seconda della definizione di gig adottata, dei metodi di campionatura, dell’area geografica di riferimento.

Finalmente, il 29 marzo 2016 viene pubblicato un lavoro di ricerca su questi temi condotto da due accademici assai noti, Lawrence Katz di Harvard e Alan Krueger di Princeton. Entrambi garanzia di rigore, accuratezza, scarso grado di ideologizzazione della ricerca. E poi il lavoro viene pubblicato nella serie working papers del National Bureau of Economic Research, un’altra garanzia. Parliamone.

L’obiettivo del lavoro di Katz e Krueger è essenzialmente di documentare “La crescita e la natura delle modalità alternative del lavoro tra il 1995 e il 2015 negli Stati Uniti”. A questo scopo gli autori hanno condotto, tra ottobre e novembre 2015, una serie di interviste secondo una versione della Contingent Worker Survey come parte della RAND American Life Panel. Sono identificati come lavoratori impegnati in attività erogate in forme alternative di lavoro:

1. lavoratori che accedono a lavori temporanei attraverso agenzie per il lavoro temporaneo
2. lavoratori su chiamata
3. lavoratori a contratto
4. lavoratori indipendenti o freelance

Queste definizioni sono tanto sintetiche quanto ambigue, ma ciò che a noi interessa in queste fasi preliminari di indagine sul fenomeno è che l’ambiguità sia permanente nel tempo e che non cambi natura. Bene, se così è, ciò che a noi interessa è soltanto che tale gruppo di lavoratori contava per il 10,1% della forza lavoro occupata nel febbraio 2005, e per il 15,8% verso la fine del 2015. Il quale è un dato impressionante: nel 2005 essi erano 1 su 10, dopo soli dieci anni erano 1 su 6.

Al macroeconomista che, come me, non sia specialista di questioni del mercato del lavoro, viene ‘naturale’ chiedersi come mai questa crescita tanto accentuata. Che sia dovuta, mi chiedo, alla Grande Recessione generata dalla crisi del credito del 2007-2008? Che questa crisi abbia indotto un mutamento strutturale (parola che a noi piace molto) nel ‘modo di essere’ del mercato del lavoro? Per rifarmi al quesito che ponevo il 14 gennaio scorso: ma questa crescita di posti di lavoro negli Usa, è crescita di posti di lavoro come il capitalismo del XX secolo ci aveva abituato a capirli, cioè a tempo pieno, protetti da garanzie previdenziali e assicurative, rappresentati dalle organizzazioni sindacali? Stando all’evidenza prodotta da Katz e Krueger verrebbe proprio da rispondere negativamente.

Il secondo risultato della ricerca che mi preme mettere in evidenza per i lettori di Economyup è che, contrariamente a quanto sostiene l’aneddotica, la crescita del fenomeno è dovuta più alle attività non intermediate attraverso la rete che a quelle intermediate attraverso la rete. Ad esempio (cito letteralmente dal sommario del lavoro di Katz e Krueger), nel 2015, lavoratori che forniscono servizi attraverso intermediari online quali Uber o Task Rabbit, rappresentano [solo, ndr] lo 0,5% del totale. E dei lavoratori che vendono merci o servizi direttamente ai loro clienti, due terzi dichiarano di trovare clienti attraverso intermediari ‘tradizionali’, non in rete, contro un terzo che lo trova attraverso intermediari in rete.

Questo secondo risultato rafforza l’ipotesi che non sia stata tanto, o principalmente, la tecnologia a produrre un aumento tanto marcato dei lavoratori ‘atipici’ negli Stati uniti, quanto l’estensione e la gravità della crisi che, alla fine del 2015, compiva sette anni (o otto, a seconda di come piaccia contare).

Ci troviamo dunque di fronte ad una trasformazione secolare del modo di funzionare del mercato del lavoro? È ora di smetterla di essere leggerini e gioiosi di fronte a concetti tipo ‘gig economy’ o ‘sharing economy’? Di più: è ora di ripensare la forma dell’impresa come l’abbiamo capita negli ultimi ottant’anni, da Coase (1937) in avanti?

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