Futuro possibile

Cinque motivi per essere ottimisti sulle startup

Le startup sono entrate nel lessico istituzionale e nel mirino delle aziende predigitali; non sono solo affari per giovani smanettoni; sono le nuove pmi; hanno bisogno di comunicazione e lobby. E soprattutto di una visione ampia e ambiziosa. Quale? Scorrete la presentazione di Riccardo Donadon agli Stati Generali dell’ecosistema per farvi un’idea del futuro possibile

Pubblicato il 17 Mar 2014

Riccardo Donadon, H-Farm

Riccardo Donadon, presidente di Italia Startup, agli Stati generali dell'ecosistema startup a Milano

Toni Servillo alias Jep Gambardella, superbo protagonista dell’Oscar “La grande bellezza”, in un’intervista al Corriere della Sera sottolinea la nostra capacità a farci del male da soli con una citazione colta, da par suo. Il poeta Umberto Saba sosteneva che “gli italiani sono incapaci di uccidere i padri e quindi di fare la rivoluzione, ma invece chiedono ai padri il permesso di uccidere i loro fratelli. O quanto meno misconoscerli». È la gran debolezza del nostro Paese. Non sentirsi mai completamente Paese. Fatta l’Italia, è stato faticoso fare gli italiani e forse l’opera non è ancora compiuta. Per traslato mi viene da dire che fatte le startup, adesso comincia il lavoro più duro di fare l’ecosistema. Che poi non significa altro che creare le condizioni perché si sviluppi una nuova economia fondata sull’innovazione.

Per fare la rivoluzione delle startup quindi serve una svolta culturale almeno quanto i soldi, che non guastano mai. Com’era prevedibile, e giusto, gli Stati Generali tenuti a Milano la scorsa settimana hanno aperto un dibattito interessante che forse ha l’unico limite di essere finora circoscritto alla nicchia nonostante, come ha ricordato il capo della segreteria tecnica del Ministero dello Sviluppo economico Stefano Firpo proprio su EconomyUp, nicchia più non è e non deve essere. Sarà comunque utile il confronto se si avrà la capacità di estrarne il succo migliore, berlo e ricavarne energia e ottimismo. Sono tutte legittime le preoccupazioni e forse anche qualche diffidenza dopo lunghe stagioni di promesse e annunci, ma se c’è una cosa da evitare è la guerriglia fratricida fra figliol prodighi e primogeniti, prediletti di mamma e papà e presunti negletti. Se per fortuna non ci sono alla vista delitti, neppure simbolici, di distinguo, dubbi e distanze se ne vedono ancora, troppi. Basta non sopravvalutarli e andare oltre. Come ha scritto su Nova del Sole24ore Luca De Biase, che gli Stati Generali ha condotto, chi porta avanti il tema startup “è chiamato alla responsabilità di andare più in profondità, di fare un salto di concretezza e di aumentare il livello di ambizione”.

Di motivi per essere ambiziosi e ottimisti ce ne sono almeno 1800, come dice Mattia Corbetta che al Mise lavora con Firpo, in risposta al bilancio in chiaroscuro scritto da Emil Abirascid dopo l’incontro milanese. Qui non si tratta di eccitarsi per le magnifiche e progressive sorti delle nuove imprese innovative, ma di rinunciare agli esercizi di “benaltrismo” che è ormai una corrente codificata nelle scienze politiche e spinge sempre a cercare qualcosa di più importante nella soluzione di un problema. In altre parole: impariamo ogni tanto a guardare la parte mezza piena del bicchiere e cominciamo da quella per riempire quella mezza vuota. Ogni tanto mi sembra che siano in troppi quelli che cercano invece di fare esattamente il contrario.

Degli Stati Generali di settimana scorsa io mi porto dietro almeno cinque certezze:
1. Le startup sono entrate nel lessico istituzionale e degli apparati ministeriali. E sono argomento di produzione legislativa. Non è cosa di poco conto. Ci sono voluti molti anni, ma è un risultato.
2. Le startup sono le nuove piccole e medie imprese di questo decennio. Hanno in comune un forte imprinting tecnologico e il problema di non restare tutte piccole e medie. La presenza convinta sul palco dell’auditorium della regione Lombardia del presidente di Piccola Industria di Confindustria Alberto Baban è in questo senso significativa.
3. Quando si parla di startup non si parla e non si deve più parlare solo di digitale (dal palco lo ha sottolineato il segretario di Italia Startup Federico Barilli). Sembra un’ovvietà ma non lo è almeno nel senso comune della parola. Aggiungo io: le startup non sono solo imprese fatte da giovani. Sbaglia chi pensa che siamo di fronte a eruzioni di stagione destinate a esaurirsi con la (presunta) maturità.
4.Le startup sono entrate nel mirino delle aziende del mondo predigitale. Cresce l’attenzione, crescono le acquisizioni (quella di Anobii da parte di Mondadori è ancora tutta da valutare ma rappresenta una svolta per la bella addormentata che è stata finora l’editoria nazionale). C’è sempre più strategia e sempre meno marketing nella miriade di contest, call ed eventi vari.
5. C’è un gran bisogno di comunicazione e, perché no?, di lobby. Serve urgentemente una narrazione convincente e anche una pressione diligente. E sarà possibile se si smetterà di continuare a parlare fra i soliti noti che si preoccupano dei 1800 che diventeranno 2000 e poi 2500 che si sono iscritti al registro delle Startup innovative. Serve formazione e informazione. Per finire di parlare di startup e cominciare finalmente a parlare di imprenditorialità e crescita.

Con queste cinque certezze credo sia possibile fare molto e arrivare pronti all’inevitabile uscita dal tunnel. E la mia convinzione è aumentata rivedendo la presentazione fatta sempre in occasione degli Stati Generali dal presidente di Italia Startup Riccardo Donadon. Parole chiave chiare e larghe, una visione che non è più da nicchia, una prospettiva finalmente di respiro. Un vero programma politico nel miglior senso ancora possibile della parola. Invito tutti a scorrere le poche slide per guardare con un po’ più di ottimismo il futuro di tanti giovani e meno giovani.

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